Dinanzi al fallimento del capitalismo e alle guerre, il saggio di Alessandra Ciattini propone di rimettere al centro il socialismo: proprietà comune dei mezzi di produzione, pianificazione democratica orientata ai bisogni, etica della solidarietà. Un percorso lungo, informato da esperienze storiche e contraddizioni.

Articolo pubblicato su volerelaluna.it
Mi pare opportuno iniziare questo intervento sulla necessità di tornare a parlare di socialismo con una definizione di quest’ultimo. Infatti, regna molta confusione attorno a noi, che viviamo in un mondo situato sotto un cielo oscuro illuminato solo dai terribili lampi lanciati dagli strumenti bellici più avanzati e più distruttivi. In primo luogo, per affrontare questo difficile tema, occorre prendere atto, benché le attuali classi dirigenti delle società a capitalismo avanzato (il cosiddetto Occidente, che non coincide con l’Occidente geografico) si rifiutino di farlo, che quest’ultimo, passato negli ultimi decenni attraverso varie fasi, è tragicamente fallito, almeno per la maggioranza della popolazione mondiale, mostrando oggi tutta la sua irrazionalità, brutalità e spietatezza. Soprattutto non si sono realizzate le sue esagerate promesse di benessere e prosperità per tutti, dell’abbattimento dei sistemi autoritari, della diffusione della cosiddetta democrazia, di un futuro di pace etc.; promesse che sostanzialmente si fondavano sulla balzana teoria dello sgocciolamento: la ricchezza prodotta dalle “libere imprese” e incamerata dai proprietari dei mezzi di produzione sarebbe scivolata verso il basso, sollevando dalla miseria coloro che stavano alla base della piramide sociale. Come sappiamo, invece, i poveri si sono ulteriormente impoveriti e i ricchi si sono arricchiti in modo osceno.
Per noi, che non abbiamo creduto alla democrazia formale (Canfora parla giustamente di sistemi rappresentativi e non democratici), né al ruolo salvifico della Ue, né alla fine della guerra fredda dopo “l’apertura del muro di Berlino”, ciò non costituisce una grande scoperta. E non perché siamo più intelligenti degli altri, ma perché sappiamo – grazie a chi ha studiato questi temi – che il capitalismo è un sistema insaziabile volto sempre alla massimizzazione dei profitti, senza nessuna preoccupazione per le esigenze della popolazione mondiale, anzi spesso in contrasto con queste ultime. Tuttavia, questo processo, descritto talvolta come un fluido che scorre, incontra ostacoli e deve superare stridenti contraddizioni, per David Harvey addirittura diciassette. Per questa ragione il capitalismo tenta sempre di rimodellarsi per sopravvivere, ma prima o poi è costretto a fare i conti con gli impedimenti incontrati, benché possa anche salvarsi in extremis.
La definizione di socialismo che propongo e che ovviamente condivido è quella elaborata da Guglielmo Carchedi e Michael Roberts, noti studiosi marxisti, per i quali esso costituisce o dovrebbe costituire “una società in cui i mezzi di produzione sono di proprietà comune e i produttori lavorano in associazione per soddisfare i bisogni della società definiti dai produttori stessi […].Ci saranno solo strutture controllate democraticamente per amministrare la produzione di cose e servizi al fine di soddisfare i bisogni della società umana”. A loro parere (ed io concordo), una tale forma di società per ora non è mai esistita, anche se si sono tentati esperimenti interessanti, ingiustamente demonizzati, che hanno dato vita a società complesse, ibride, non più capitalistiche ma in trasformazione, tenendo sempre presente che la transizione può avere esiti diversi e inaspettati, non sempre umanamente controllabili (https://sinistrainrete.info/marxismo/26741-guglielmo-carchedi-e-michael-roberts-la-teoria-del-valore-di-karl-marx-per-comprendere-il-funzionamento-del-capitalismo-oggi).
Può sembrare paradossale cercare di riproporre il tema “socialismo” e nello stesso tempo affermare che nella sua essenza esso non è mai esistito, ma paradossale non è, perché occorre rendersi conto che – come hanno sostenuto molti marxisti – il socialismo non coincide con la presa del potere, con la collettivizzazione dei mezzi di produzione. Come diceva il famoso slogan “Socialismo o barbarie”, esso costituisce una nuova forma di civiltà, in cui viene instaurato il regno della libertà, nel quale gli esseri umani divengono padroni della loro vita, lavorano non solo per i loro bisogni elementari, producono per soddisfare le necessità comuni, benché la nuova società non potrà cancellare le condizioni inerenti alla fragilità umana. In conclusione, si tratta di un’impresa titanica, anche se è possibile avvicinarsi alla sua realizzazione attraverso scelte politiche adeguate, ma non definibili a priori e sicuramente di lungo respiro. Di un’impresa in cui l’essere umano va oltre la sua dimensione puramente individualistica e non si preoccupa solo della sua sopravvivenza, ma mira alla realizzazione della sua essenza universale, non intesa in senso astorico e metafisico. Infatti, essa si manifesta nelle potenzialità offerte dal processo storico e corrisponde alla libera attività cosciente e creativa, la cui esplicazione è resa possibile dal superamento del capitalismo, soprattutto di quello dell’attuale fase, in cui si è accresciuto lo sfruttamento e si sono ristabiliti rapporti di tipo schiavile (in Grecia si intende introdurre la giornata lavorativa di 13 ore).
Questa prospettiva può essere rigettata, perché in essa è evidente la dimensione etica che inquinerebbe il cosiddetto socialismo scientifico, ma inevitabilmente le cose sono molto più complicate. Occorre comprendere che l’etica (i valori) sono inerenti a ogni attività umana, compresa quella conoscitiva, il cui metodo e rigore non ne garantiscono la neutralità. Se pensiamo alle tendenze irrazionalistiche fiorenti nella tradizione occidentale, che sostanzialmente giungono alla convinzione che sia impossibile conoscere, l’atto con cui ci si impone di comprendere per trasformare il vivere sociale costituisce già di per sé una scelta etica. Senza poi parlare di un principio sociologico e antropologico fondamentale: l’uomo in quanto animale sociale e culturale non possiede una natura definita e immodificabile. Le diverse forme di società ne plasmano e ne modificano il comportamento, dando vita a modelli umani diversi: l’homo oeconomicus del primo capitalismo, l’uomo flessibile del neoliberismo, l’uomo nuovo di cui ha parlato, per esempio, Che Guevara. Tali modelli antropologici si fondano su principi etici diversi, come per esempio “dare il meno possibile per ottenere il massimo” di qualsiasi azienda capitalistica, occorre pagare per esercitare i propri diritti ormai mercificati, “dare a ognuno secondo i suoi bisogni” dell’etica solidaristica.
Penso che riconoscere la grandiosità della costruzione del socialismo implichi necessariamente che esso potrà essere solo il prodotto dello sforzo di alcune generazioni, le quali non opereranno per un futuro lontano o utopistico, ma dovranno dare impulso a trasformazioni radicali e immediate per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori (in senso generale), usando come leva del cambiamento le contraddizioni attuali. Per esempio, lo straordinario programma di riarmo approntato dall’Ue deve essere impiegato per mobilitare le masse non solo contro la guerra, ma anche contro il sistema che l’ha partorita, mostrando che queste scelte politiche danneggiano gravemente le classi popolari e costituiscono un ulteriore tentativo per salvare il cosiddetto ordine internazionale. Ordine – dicono basato sulle regole, ma di fatto sul dominio del più forte ormai in affanno – la cui politica dal 1945 in poi ha avuto conseguenze disastrose sui popoli del mondo, compresi gli europei che sin dalla sua spartizione in due blocchi sono stati trasformati, senza esser stati consultati, in una subordinata appendice degli Usa e della sua organizzazione militare (la NATO).
Del resto, pur avendo alle spalle un paese in straordinaria crescita tanto da guadagnare un grande prestigio internazionale, gli stessi politici cinesi collocano la loro società solo nella fase primaria del socialismo e, seguendo Mao Zedong, sottolineano che ci vorranno decenni per avanzare in questa direzione, anche perché essa non è esente da contraddizioni. Al contempo sottolineano di aver espropriato la borghesia solo politicamente e non economicamente per potersi assicurare lo sviluppo delle forze produttive. Anche Che Guevara aveva idee analoghe e criticava per molti aspetti il modello sovietico, come si può ricavare in maniera dettagliata dall’analisi del Manual de Economía Política pubblicato in spagnolo nel 1963 dall’Accademia delle Scienze dell’URSS. Tale critica è apparsa, insieme ad altre interessanti osservazioni, negli Apuntes críticos a la Economía política, che hanno visto la luce solo nel 2006. In particolare, egli sosteneva che l’impiego astratto delle categorie mercantili, come quella di calcolo economico, costituissero un ostacolo allo sviluppo della coscienza dell’uomo, fattore imprescindibile nel processo di costruzione del socialismo a Cuba (L’uomo e il socialismo a Cuba, 1965).
Su questi temi tra il 1963 e il 1964 si sviluppò un animato dibattito che coinvolse non solo gli intellettuali e politici cubani, ma anche importanti personaggi europei come Ernest Mandel e Charles Bettelheim, entrambi marxisti eterodossi. Un dibattito che ricordano solo gli specialisti e la cui ignoranza – a livello dei vecchi partiti e della masse – oscura la complessità della costruzione di una civiltà socialista, nonostante essa sembri attualmente l’unica via di uscita rimasta. Contro questa ipotesi certamente si schiereranno coloro che credono in una possibile riformabilità del capitalismo, che sono convinti che “libera impresa” voglia dire libertà e che costituisca la molla del progresso e dell’emancipazione. Convinzione del tutto smentita dal funzionamento dell’attuale sistema economico-politico, in cui la formazione dei grandi monopoli, la proprietà privata delle piattaforme digitali, il rafforzamento delle forme di controllo per combattere la cosiddetta disinformazione limitano sempre più gli spazi di libertà e offendono la dignità umana.
Gli altri problemi, affrontati dal Che e discussi a livello internazionale, sono la messa in questione della validità della legge del valore nella società socialista, la riflessione sulla pianificazione e il primato degli stimoli morali rispetto a quelli materiali per i lavoratori. Naturalmente la riflessione sugli esperimenti di socialismo sarebbe complessa e, pertanto, non affrontabile in questa sede, ma possiamo accennare a qualche tema. Per esempio, nel famoso dibattito su citato si discusse molto sulla nozione di capitalismo di Stato per definire il socialismo dell’est europeo. L’economista Mandel ritiene inadeguata questa definizione e preferisce impiegare la categoria di economia di transizione per riferirsi ai paesi ormai ex socialisti. A suo parere, almeno inizialmente, la burocrazia sovietica o i direttori di fabbrica non potevano né licenziare, né stabilire i prezzi, né ricevere finanziamenti esteri, si trovavano pertanto sottoposti alla politica di pianificazione. In questo senso non costituivano una classe in sé, tanto meno simile a quella capitalistica, almeno fino a che il reddito del direttore non venne vincolato al profitto della fabbrica, sganciando la produzione di quest’ultima dalla pianificazione generale. L’avanzare di questo processo può condurre all’acquisizione di tutti i diritti di un vero e proprio proprietario da parte del dirigente, mettendolo nelle condizioni di trasferire la sua proprietà agli eredi e di giungere a chiudere la fabbrica. Come di fatto è avvenuto nell’ex Unione Sovietica anche per l’azione di altri fattori, la società di transizione è sottoposta al rischio di restaurazione del capitalismo e nello stesso tempo non costituisce un autentico socialismo perché in essa, nonostante le grandi trasformazioni, permangono le categorie mercantili, dato che lo sviluppo insufficiente delle forze produttive fa sì che la distribuzione dei beni di consumo avvenga solo in cambio di una quantità di lavoro determinato e non sulla base dei bisogni di ognuno (Mandel, La categorías mercantiles en el peróodo di transicion, 1964: 208-209).
Assai più complicato è il caso della Cina, secondo me definita giustamente da John Bellamy Foster una società ibrida, nella quale – come scrivono Rémy Herrera e Zhiming Long in un recente libro dal titolo La Cina è capitalista? (2020) – sarebbe operante una sorta di diarchia, che oppone i capitalisti cinesi, dominanti nella sfera economica e sostenuti dal capitale internazionale, e i dirigenti politici, che controllano l’apparato statuale, finanziario, politico, ossia il PCC con 100 milioni di militanti. Tra questi due contendenti sarebbe anche in atto un’aspra lotta di classe, in un contesto in cui sono presenti molti meccanismi di mercato capitalisti.
Il XV piano quinquennale, recentemente approvato, prevede ulteriori incrementi al settore privato, in cui la proprietà dello Stato è solo del 10% e che produrrebbe circa il 60% del Pil, in particolare volti al potenziamento dei servizi da loro offerti. Invece il settore pubblico comprende le imprese miste, in cui la proprietà statale è più consistente (MOE), e le imprese completamente possedute dallo Stato (SOE). Questo sistema diarchico ha dato impulso allo sviluppo straordinario delle forze produttive, anche grazie alle scelte obbligate che il capitalismo euroatlantico ha dovuto fare a partire dagli anni ’70 per contenere i costi del lavoro; processo che ha consentito una formidabile distribuzione della ricchezza grazie alla quale circa 800 milioni di cinesi sono stati sollevati dalla loro condizione di povertà estrema.
Nonostante il carattere ibrido della società cinese, come ci dicono importanti studiosi come Zhang Boyng, essa non ha rinunciato alla realizzazione del comunismo, come forma pienamente realizzata del socialismo, benché abbia in qualche modo smorzato la categoria della lotta di classe in nome del concetto di armonia, centrale nella filosofia tradizionale di questo antichissimo paese. Questa modifica è il frutto della problematica “sinizzazione del marxismo”, che sembra essere qualcosa di più della semplice “analisi concreta della situazione concreta”.
Dopo questa rapida analisi di alcuni esperimenti di socialismo, sembra urgente ripensare a quanto è stato prodotto dal neoliberismo negli ultimi decenni, tenendo in conto che esso è sorto dalla precedente fase capitalistica, definita età dell’oro (1945-1973), che ha visto solo una limitata parte del mondo migliorare le proprie condizioni di vita grazie al sistema neocoloniale responsabile dell’emorragia delle risorse dal Sud del Mondo verso i cosiddetti paesi civili. Da questa riflessione non si possono che ricavare idee socialiste quali la netta opposizione alla privatizzazione dello Stato e delle istituzioni pubbliche, che ha trasformato alcune avanzatissime imprese legate alle tecnologie più moderne nelle vere padrone del mondo, pronte anche a scatenare guerre sanguinose. Per privarle di questo potere è indispensabile l’abolizione della proprietà privata che genera processi sempre più spietati di sfruttamento e di accumulazione, i quali rendono impraticabile l’esercizio dei diritti e violano la dignità umana, perché diritti e dignità sono indissolubilmente legate alle condizioni materiali di esistenza. A partire da tale abolizione, è necessaria poi la costruzione di un nuovo ordine mondiale che sconfigga l’imperialismo, blocchi il suo funzionamento depredatore e impedisca il suo interventismo violatore delle sovranità nazionali, intese non come entità in competizione ma come organizzazioni politiche collaborative e complementari sul piano socio-economico e politico. La presa di coscienza che solo su questi principi possiamo trovare risposta agli attuali gravissimi problemi è sottolineata da Vijay Prashad, secondo il quale oggi “il mondo vuole avanzare verso il socialismo” (https://monthlyreview.org/articles/the-world-wants-to-advance-to-socialism/. Noi cercheremo di dare il nostro contributo.
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