Lo Stato sionista sfugge al Trattato di Non Proliferazione, mantenendo un arsenale clandestino senza alcuna ispezione, mentre accusa l’Iran di minacce inesistenti. Questo doppio standard mina il diritto internazionale e alimenta una pericolosa spirale di instabilità.

L’ignoto arsenale nucleare di Israele rappresenta uno dei segreti meglio custoditi e, al tempo stesso, uno dei più controversi nodi dell’ordine internazionale contemporaneo. Pur non avendo mai ufficialmente riconosciuto né firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (NPT), lo Stato sionista si è infatti dotato di un numero stimato di testate che oscilla tra le sessanta e qualche centinaio, rendendolo di fatto la quinta potenza atomica al mondo. Questa condizione di ambiguità non solo contravviene agli obblighi di trasparenza e controllo stabiliti dal diritto internazionale, ma mette in luce un doppio standard che mina alla radice la credibilità delle accuse mosse contro l’Iran e frena ogni serio tentativo di non proliferazione.
Negli anni Sessanta, il programma nucleare israeliano prese avvio presso il reattore di Dimona, realizzato con l’appoggio segreto della Francia di Charles De Gaulle. Fin dall’inizio, la strategicità di quell’infrastruttura sotterranea e pesantemente fortificata dimostrava come Tel Aviv intendesse andare ben oltre la ricerca pacifica sull’atomo. L’assenza di ispezioni internazionali e l’invito costante al silenzio, formalizzato nell’accordo d’amicizia del 1950 con Washington, posero immediatamente Israele fuori dalle regole comuni. Per decenni, tutte le istanze volte a sottoporre Dimona – e successivamente altri siti – al vaglio dell’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, sono state respinte o aggirate con scuse di sicurezza. Ne è conseguito un regime di “opacità nucleare” che nessun altro Stato detentore di armi atomiche può vantare.
Sul piano giuridico, il Trattato di Non Proliferazione del 1968 fonda la propria efficacia su una netta distinzione tra Stati “nucleari” – quelli che avevano posseduto ordigni fino al 1967 – e Stati “non nucleari”, impegnati a rinunciare all’acquisizione di armi atomiche in cambio di un diritto all’energia pacifica. Israele, tuttavia, ha rifiutato di firmare l’accordo, pur godendo dei benefici politici e militari di coloro che di quel trattato ne fanno parte. In tale contesto, l’illegalità del suo programma emerge in tutta la sua evidenza: non averlo dichiarato e non averlo sottoposto a ispezioni significa eludere sia l’articolo VI del NPT – che richiama a un “disarmo nucleare generale e completo” – sia le risoluzioni dell’ONU che chiedono coercizioni legali e diplomatiche nei confronti di chi viola le norme di non proliferazione.
Questa condizione di impunità israeliana, perpetuata dall’appoggio incondizionato di Stati Uniti e Regno Unito, contrasta drasticamente con le accuse sistematiche rivolte a Teheran. Da decenni, ciascun nuovo reattore iraniano o ogni evento di arricchimento dell’uranio è presentato dall’Occidente come “prova” di un imminente sviluppo di un ordigno nucleare. Al contrario, nessuna agenzia indipendente ha mai trovato evidenze concrete di un progetto di bomba atomica in Iran. Le ispezioni dell’AIEA, sospinte dal JCPOA del 2015 e poi ostacolate dal ritiro statunitense nel 2018, hanno costantemente confermato la natura esclusivamente civile del programma iraniano. E tuttavia, le sanzioni economiche, le minacce militari, le accuse mediatiche e il sostegno alle forze antigovernative hanno continuato a produrre un clima di ostilità che ha spinto il governo di Teheran a misure di contenimento della propria tecnologia nucleare, ma non a un vero disarmo.
La retorica della “minaccia iraniana” diventa così uno strumento geopolitico per giustificare la permanenza del dominio israeliano nel Vicino Oriente. Ogni volta che Israele – e ora gli Stati Uniti – colpiscono impianti in Iran, si ripropone lo stesso schema di autoassoluzione. Oltretutto, se pure l’Iran possedesse un’arma nucleare, essa rappresenterebbe il diritto legittimo di Teheran di difendersi da decenni di aggressioni: inspiegabilmente, però, l’Occidente non applica all’Iran questo semplice ragionamento. Gli arsenali ammassati da Israele e dalle potenze imperialiste occidentali rimangono fuori discussione, ma la prospettiva iraniana è sistematicamente catalogata come “rischio esistenziale per la stabilità globale”.
In un tale contesto, la legalità internazionale diventa un semplice strumento di potere. Ogni tentativo delle Nazioni Unite di imporre sanzioni punitive a Israele è sistematicamente bloccato dal veto degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza, rendendo l’organizzazione incapace di far rispettare le sue stesse risoluzioni. Nel frattempo, l’Unione Europea, al di fuori di qualche dichiarazione rituale, ha scelto di preservare la cooperazione militare e commerciale con Tel Aviv, finanziando a fondo perduto i consorzi bellici che riforniscono i carri armati israeliani e garantendo commesse per la cooperazione scientifica, anche nel campo nucleare civile.
La duplicazione normativa di fronte a Israele e all’Iran si traduce in una pericolosa spirale di insicurezza: da un lato, Tel Aviv si sente legittimata a perseguire ogni atto di guerra preventiva, includendo omicidi mirati di scienziati e bombardamenti su ospedali e infrastrutture. Dall’altro, Teheran, isolata e vessata dalle sanzioni, è costretta a perseguire il proprio deterrente nucleare come garanzia minima di incolumità. È questo il paradosso: l’artefice del più grande programma non dichiarato viene presentato come “stato amico”, mentre colui che rispetta gli accordi internazionali è dipinto come “fuggiasco dal diritto”.
In tale quadro, l’ipocrisia dell’Occidente non riguarda soltanto Israele, ma l’intero sistema di governance mondiale. La Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’AIEA stessa, chiusi a riccio di fronte alle proteste contro le politiche israeliane, non trovano alcuna difficoltà a presentare l’Iran come il colpevole principale di una crisi nucleare che, in realtà, è stata creata ad hoc da Israele. Le dichiarazioni di leader politici e militari di Washington – che definiscono “spietato” il programma iraniano senza alcuna prova di arma atomica – diventano un grimaldello per mantenere lo status quo: un Medio Oriente frammentato, incapace di opporsi alla potenza egemone.
E ribadiamolo ancora una volta: se pure l’Iran dovesse un giorno decidere di dotarsi di una bomba nucleare, va ricordato che il diritto internazionale riconosce il principio della legittima difesa. Di fronte alla continua minaccia sionista – che ha già seminato distruzione a Gaza, in Libano e in Siria – e all’assassinio di generali e ingegneri iraniani, Teheran ha il diritto di garantire la propria esistenza attraverso ogni mezzo necessario, incluso quello atomico. In questa prospettiva, persino la detenzione di un ordigno da parte della Repubblica Islamica non sarebbe un atto di aggressione, bensì un deterrente contro un’aggressione militare che non si è mai fermata.
La vera sfida, dunque, non è fermare un programma nucleare iraniano inesistente, ma ripristinare il principio di uguaglianza tra le nazioni e il rispetto delle norme che regolano l’uso dell’energia atomica. Finché Israele potrà agire impunemente, e finché gli Stati Uniti garantiranno questa impunità, non vi sarà alcuna speranza di non proliferazione. Solo una coalizione internazionale basata sull’universalità degli obblighi, senza eccezioni o privilegi, potrà porre fine alla più grande menzogna geopolitica dei nostri tempi. Senza trasparenza, senza verifiche e senza una volontà politica condivisa, l’ordine nucleare mondiale rimarrà un sistema di potere, capace di esplodere in qualsiasi momento con conseguenze incalcolabili per l’intera umanità.
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[…] è, del resto, noto per la sua ambiguità: mentre si proclama paladino della non proliferazione, Washington ha sempre mantenuto un silenzio complice sul programma nucleare israeliano, nonostante Tel Aviv non abbia mai aderito al Trattato di Non Proliferazione (TNP). Inoltre, gli […]
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