Rapporto OCSE sulle prospettive occupazionali: uno sguardo al gender gap

L’ultimo Rapporto OCSE sulle prospettive occupazionali indica una linea netta: per sostenere crescita e conti pubblici si punta a “mobilitare” lavoro inutilizzato, soprattutto femminile. Ma dietro il calo del gender gap restano part-time involontario, lavoro di cura e penalizzazioni salariali che richiedono risposte pubbliche, non palliativi aziendali.

di Emiliano Gentili e Federico Giusti

L’ultimo documento ufficiale sulle prospettive occupazionali nei 38 Paesi facenti parte dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) presenta un’impostazione chiara: controbilanciare il calo del PIL con la «mobilitazione di risorse lavorative significativamente inutilizzate, soprattutto tra le donne, gli anziani in buona salute e i migranti regolari»[1]. E alla questione femminile nello specifico viene dedicato, nel Rapporto, ampio spazio, a partire dal tema del divario occupazionale fra uomini e donne.

I. Divario occupazionale

Negli ultimi anni, ossia da dopo la pandemia, il divario tra uomini e donne sembra ridursi, ma questo dato «potrebbe in parte riflettere il fatto che alcune donne sono tornate sul mercato del lavoro durante la crisi del costo della vita per compensare la perdita di potere d’acquisto legata ai guadagni del marito»[2]. L’aumento dell’occupazione femminile non sarebbe quindi una dinamica strutturale e infatti nel documento viene scritto: «Il divario di genere nei tassi di occupazione delle persone in età lavorativa è diminuito di 7,6 punti percentuali tra il 2000 e il 2021, ma il suo calo si è dimezzato nel secondo decennio del XXI secolo»[3]. A fronte di ciò l’OCSE propone delle misure palliative – quali il rafforzamento del welfare aziendale per la famiglia, ad esempio –, fingendo di non comprendere che le ragioni del divario occupazionale siano da rintracciare nell’organizzazione del lavoro dipendente e nella funzione della famiglia che mantiene quel ruolo di “ammortizzatore sociale” atto a smussare e rendere private alcune delle problematiche quotidianamente esperite proprio dai lavoratori e dalle loro famiglie.

Una delle ragioni della sottoccupazione femminile è da ricercare nelle modalità d’impiego delle donne: il part-time, ad esempio, consente loro di occuparsi anche del lavoro di cura domestico, ma al patto di rinunciare a una parte della retribuzione e delle opportunità di carriera, oltre che di avere un lavoro precario. Tuttavia, le imprese non sembrano voler rinunciare ai lavoratori a tempo parziale, specie nel settore dei servizi e della logistica di ultimo miglio – dove i part-time sono utilizzati per gestire le variazioni giornaliere della domanda. In media, nei Paesi OCSE le donne svolgono il 71% degli impieghi part-time[4]. Non è un caso se, «Per le donne, l’occupazione part-time aumenta durante l’età riproduttiva, raggiungendo un picco del 33,7% in media tra i paesi OCSE con dati disponibili a 39 anni, e poi di nuovo in età avanzata, fino al 64,7% in media entro i 69 anni», mentre gli uomini rimangono sotto il «10% in media fino ai 55 anni, prima di aumentare esponenzialmente fino a raggiungere il 50,3% entro i 69 anni»[5]. Esiste poi tutto un insieme di persone che sono impiegate part-time ma, potendo, passerebbero a un lavoro a tempo pieno; si tratta del cosiddetto part-time involontario”, particolarmente presente in «Italia e Spagna, dove rispettivamente il 54% e il 52% delle donne di età compresa tra 55 e 69 anni lavorano part-time involontariamente»[6].

Ove la percentuale delle lavoratrici occupate risulta più bassa, ad esempio nel nostro Paese, gli interventi sul welfare per aumentare l’offerta di asili nido e dopo-scuola sarebbero soluzioni tanto gradite quanto praticabili: uno degli obiettivi iniziali del PNRR era proprio quello di aprire centinaia di nuovi asili nido, ma in una delle revisioni del Piano questo aspetto si è perso per strada – come altri –, per indirizzare le risorse comunitarie secondo i desiderata delle imprese. Una scelta politica folle quella del Governo Meloni, se pensiamo al numero delle occupate in Italia, all’elevato ricorso ai contratti part-time e, infine, al numero di ore lavorate.

Un altro motivo del divario occupazionale di genere risiede nell’assunzione di responsabilità, da parte delle donne, della gran parte del lavoro di cura e familiare: «In media, nell’OCSE, le donne dedicano circa quattro ore al giorno a lavoro domestico e di cura non retribuito, contro le circa due ore degli uomini», ma in Italia le donne dedicano circa 2,2 volte il tempo che vi dedicano gli uomini[7]. Su questo punto, tuttavia, l’OCSE appare più trasparente di quanto lo sia invece sulla questione del part-time; perlomeno laddove è detto che «Le indagini sull’uso del tempo, tuttavia, sottostimano il divario di genere nel carico di lavoro domestico. Il motivo è che, anche quando hanno un lavoro, le donne trascorrono più tempo “di reperibilità”, ovvero sono pronte ad affrontare imprevisti domestici durante il giorno per i quali si necessita l’intervento di un membro adulto della famiglia (ad esempio, un bambino malato che deve essere prelevato da scuola).  Tutto ciò si riflette nelle differenze di genere nei tempi di spostamento e nella preferenza per accordi di lavoro flessibili[8]. Si tratta di una vera e propria “penalità” a carico del genere femminile, che «deriva da una combinazione di discriminazione diretta da parte del datore di lavoro ed effetti indiretti come la riduzione dell’orario di lavoro o le interruzioni di carriera dovute alle responsabilità di cura dei figli, che sono particolarmente comuni tra le donne con livelli di competenza da bassi a medi, in parte perché il costo finanziario dell’abbandono del lavoro è inferiore»[9]. E allora l’unica strada percorribile per ridurre il gender gap rimane la fornitura di servizi socio-assistenziali gratuiti da parte dello Stato, a partire dagli asili nido e dai servizi di dopo-scuola, da un lato, e dall’assistenza agli anziani, dall’altro.

Bisogna infine non guardare al mancato possesso di un titolo di studio adeguato come una delle cause della sottoccupazione femminile, in quanto «Nel 2023, il tasso medio di inattività per le donne di età compresa tra 55 e 64 anni con qualifiche inferiori al livello secondario era del 54,6%, rispetto al 36,7% per gli uomini in questa fascia di età e qualifica (…). Al contrario, i tassi sono molto più bassi per le persone con qualifiche terziarie, ma sono in media quasi doppi per le donne (26%) rispetto agli uomini (16,5%)»[10].

In conclusione: per quanto il divario occupazionale si sia considerevolmente ridotto a partire dagli anni 2000, in assenza di interventi forti da parte dello Stato questo divario potrebbe presto tornare a crescere, complici le tensioni internazionali e le attuali difficoltà economiche del sistema imprenditoriale.

II. Divario sul lavoro

Sul lavoro, il divario di genere assume almeno due aspetti rilevanti: il divario nella retribuzione e quello nella salute sul lavoro. Sul piano della retribuzione la problematica principale evidenziata dall’OCSE concerne le «maggiori probabilità di interrompere il percorso di carriera a causa dell’assistenza prestata in età precoce, a causa del parto e anche più tardi nella vita a causa dell’assistenza degli adulti»[11], che chiaramente portano a minori guadagni nel tempo. Le maggiori responsabilità familiari, unite agli stipendi mediamente più bassi a cui dover rinunciare, conducono inoltre le donne a scegliere, più dell’uomo, il pensionamento anticipato. Tuttavia alcuni fattori, come ad esempio le gravidanze o l’utilizzo dei permessi della L. 104 per l’assistenza ai parenti anziani in condizioni di disabilità, possono facilmente condurre anche direttamente al licenziamento – specie nella forma del mancato rinnovo del contratto di lavoro.

Riguardo la salute sul lavoro, infine, secondo l’OCSE «Solo il 17% degli uomini di età compresa tra 55 e 64 anni segnala elevati rischi fisici, rispetto al 23% degli uomini di età compresa tra 16 e 29 anni (…). Analogamente, i livelli di esposizione per le donne più anziane diminuiscono dal 28% tra 16 e 29 anni al 23% tra 55 e 64 anni»[12]. Diverse analisi sociologiche mostrano un’incidenza maggiore, per le donne, dei disturbi muscolo-scheletrici e delle problematiche psicologiche dovuti al lavoro. Un’indagine sul solo rischio di contrarre infortuni – com’è quella dell’OCSE –, del resto, non potrebbe mai intercettare pienamente il fenomeno.


NOTE

[1] OCSE, Prospettive occupazionali dell’OCSE 2025, p. 13.

[2] Ivi, p. 20.

[3] Ivi, p. 83.

[4] Ivi, p. 29.

[5] Ivi, p. 150.

[6] Ivi, p. 152.

[7] Cfr. OCSE, op. cit., Fig. 2.11, p. 87.

[8] Ivi, p. 87.

[9] Ivi, p. 171.

[10] Ivi, p. 142.

[11] Ivi, p. 138.

[12] Ivi, p. 145.

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About Federico Giusti

Federico Giusti è delegato CUB nel settore pubblico, collabora coi periodici Cumpanis, La Città futura, Lotta Continua ed è attivo sui temi del diritto del lavoro, dell'anticapitalismo, dell'antimilitarismo.

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