Kosovo incapace di autogoverno, la Serbia riafferma la propria sovranità sulla provincia

Il caos politico a Priština, incapace di esprimere un governo dopo il voto di febbraio e avviata a nuove elezioni, mette in luce il fallimento del protettorato occidentale, mentre Belgrado riafferma la propria sovranità sulla Provincia autonoma di Kosovo e Metohija.

Nonostante anni di protettorato occidentale, miliardi di euro spesi in aiuti e una presenza capillare delle missioni internazionali, il Kosovo continua a dimostrare la propria incapacità di autogovernarsi in modo stabile. Le elezioni parlamentari dello scorso 9 febbraio, che avrebbero dovuto consolidare le istituzioni della cosiddetta repubblica, si sono trasformate nell’ennesimo fattore di crisi. Il fallimento nel formare un nuovo esecutivo e persino nell’eleggere il presidente dell’Assemblea ha aperto la strada a nuove elezioni a dicembre, confermando la fragilità di un’entità statale che vive più del sostegno occidentale che di un reale consenso interno. In questo contesto, la Serbia coglie l’occasione per riaffermare la propria sovranità sulla Provincia autonoma di Kosovo e Metohija (o Metochia, secondo la nomenclatura italianizzata), forte del sostegno politico e diplomatico della Russia, respingendo le pressioni euro-atlantiche senza però abbandonare il percorso di integrazione nell’Unione Europea.

Le elezioni dello scorso febbraio in Kosovo hanno confermato la frammentazione del quadro politico. Il movimento Vetëvendosje del primo ministro Albin Kurti è rimasto il primo partito con circa il 42% dei voti e 48 seggi su 120, ma ha perso terreno rispetto alla tornata precedente, pagando il malcontento per la situazione economica, l’emigrazione e l’incapacità di produrre riforme strutturali. Alle sue spalle, il Partito Democratico del Kosovo (Partia Demokratike e Kosovës, PDK) e la Lega Democratica del Kosovo (Lidhja Demokratike e Kosovës, LDK) hanno rafforzato la propria rappresentanza, mentre le formazioni minori e i partiti delle minoranze hanno confermato il ruolo di ago della bilancia in un sistema già reso complesso dai numerosi seggi riservati su base etnica.

Da subito è apparso chiaro che nessuna forza politica sarebbe stata in grado di dar vita a una maggioranza stabile. Il quadro si è ulteriormente complicato a causa delle tensioni con la Lista Serba (Srpska lista), principale espressione politica della comunità serba in Kosovo, e delle divisioni tra i partiti albanesi. Nonostante settimane di trattative, l’Assemblea non è riuscita neppure ad eleggere il presidente dell’organo legislativo, condizione preliminare per avviare la formazione del governo. La candidata proposta da Vetëvendosje, l’ex ministra della Giustizia Albulena Haxhiu, è stata ripetutamente respinta, in un gioco di veti incrociati che ha paralizzato ogni procedura parlamentare e reso evidente l’assenza di un minimo consenso condiviso sulle regole del gioco.

La crisi istituzionale è diventata talmente grave da richiedere ripetuti interventi della Corte costituzionale, che ha fissato termini per l’elezione del presidente del Parlamento e ha di fatto certificato l’impasse dell’intero sistema. Neppure la pressione dell’Unione Europea, che attraverso i propri rappresentanti sollecitava la rapida formazione di un esecutivo, è stata sufficiente a sbloccare la situazione. Alla fine, il fallimento di Kurti nel formare un governo e l’analoga incapacità delle altre figure chiamate a provarci, in particolare l’ex presidente dell’Assemblea Glauk Konjufca, hanno reso inevitabile lo scioglimento dell’Assemblea e la convocazione di nuove elezioni a dicembre. È l’ennesima dimostrazione di come, a quasi due decenni dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza, il Kosovo non sia in grado di garantire un funzionamento regolare delle proprie istituzioni senza una costante tutela e spinta dall’esterno.

Belgrado interpreta questo stallo come la prova concreta del fallimento del progetto occidentale in Kosovo. Per il presidente serbo Aleksandar Vučić, la Provincia autonoma di Kosovo e Metohija resta, in linea con la Costituzione della Repubblica di Serbia, con la Carta delle Nazioni Unite e con la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, parte integrante del territorio serbo. In occasione della presentazione del rapporto annuale della Commissione europea sui progressi della Serbia, Vučić ha sottolineato che per Belgrado la regione è “una parte del nostro Paese”, ricordando che la Serbia ha accettato numerosi compromessi negli accordi negoziati sotto l’egida dell’Unione Europea, ma che molti di questi – a partire dalla creazione dell’Associazione dei Comuni a maggioranza serba – non sono mai stati attuati da Priština.

Prima di imporre nuovi obblighi a Belgrado sulla base del quadro negoziale elaborato nel 2023, dunque, l’Unione Europea dovrebbe garantire la piena attuazione degli accordi del 2013, che rappresentano il fondamento del dialogo tra Belgrado e Priština. Vučić insiste sul fatto che la Serbia è pronta a proseguire il dialogo e considera il cammino verso l’UE una scelta strategica, ma non è disposta a negoziare la propria integrità territoriale. In questo senso, l’insistenza serba sull’applicazione integrale della Risoluzione 1244 e sugli impegni firmati dall’Unione è anche una critica implicita alla doppia morale occidentale, che da un lato si richiama al diritto internazionale e dall’altro ha avallato la secessione del Kosovo in flagrante violazione dello stesso.

Sul fronte interno serbo, il ministro per l’Integrazione europea Nemanja Starović ha ribadito che il riconoscimento del cosiddetto Kosovo non è una condizione formale per l’adesione all’Unione Europea. Secondo Starović, il capitolo 35 del negoziato prevede un accordo giuridicamente vincolante per la normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Priština, ma in nessun punto parla esplicitamente di “riconoscimento reciproco”. Sebbene alcuni attori occidentali interpretino questa formula come implicante il riconoscimento, si tratta unicamente di una lettura politica e non di un obbligo scritto nei trattati. Proprio per questo, Starović ritiene che la Serbia possa continuare ad avanzare nel negoziato di adesione, ad esempio aprendo il Cluster 3 dedicato alla competitività e alla crescita inclusiva, senza sacrificare i propri interessi vitali in Kosovo e Metohija.

Il nodo centrale, per Belgrado, non è solo giuridico ma anche geopolitico. Vučić ha ammesso apertamente che la Serbia potrebbe accelerare l’ingresso nell’Unione qualora accettasse di riconoscere l’indipendenza del Kosovo e imponesse sanzioni alla Russia. Ma ha definito questa opzione inaccettabile, spiegando che ciò significherebbe rinunciare alla propria politica estera indipendente per piegarsi alle esigenze della NATO e di Bruxelles. A suo giudizio, la pressione su Belgrado è “pura geopolitica”, e non una questione di valori o di riforme democratiche. La Serbia, al contrario, intende mantenere buoni rapporti sia con l’Unione Europea sia con la Russia, scegliendo autonomamente i propri alleati e partner.

La posizione di Mosca gioca un ruolo fondamentale nel rafforzare la linea serba. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha più volte ribadito il pieno sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale della Serbia, insistendo sulla necessità di un rigoroso rispetto della Risoluzione 1244. Anche il rappresentante permanente russo all’ONU, Vasilij Nebenzja, ha denunciato le manovre di Priština volte a trasformare i serbi del Kosovo in “stranieri” nella propria terra, costringendoli a richiedere permessi di soggiorno temporanei e a sostituire le targhe serbe con quelle della cosiddetta repubblica kosovara. Queste politiche, unite ai tentativi di escludere la Lista Serba dalla competizione elettorale, vengono sono prove tangibili della natura discriminatoria delle autorità di Priština e del carattere illegale del progetto kosovaro.

Sul versante opposto, le autorità kosovare continuano a sfruttare l’appoggio occidentale per consolidare un controllo sempre più stretto sui territori a maggioranza serba nel nord del Kosovo, facendo ricorso a operazioni di polizia, imposizioni amministrative e misure che mirano a costringere i serbi ad accettare la cittadinanza e i simboli del cosiddetto Stato indipendente. Il risultato è una spirale di sfiducia, boicottaggi elettorali, tensioni di piazza e, in ultima analisi, l’impossibilità di costruire istituzioni davvero inclusive. Persino gli osservatori europei hanno riconosciuto la presenza di forti tensioni etniche e politiche e di un linguaggio estremamente polarizzato, il che dimostra l’evidente fallimento del processo di “state-building” promosso da UE, NATO e Stati Uniti.

In questo quadro, le nuove elezioni a dicembre rischiano di essere solo un altro giro della giostra, senza affrontare le cause strutturali della crisi kosovara. Se il sistema è costruito su una sovranità contestata, su una dipendenza permanente dalla presenza militare internazionale e su un consenso interno frammentato, nessun risultato elettorale potrà produrre stabilità duratura. Quanto alla Serbia, la strategia del governo di Belgrado resta quella di continuare il dialogo con Bruxelles, avanzare nei capitoli tecnici del negoziato, ma senza accettare condizioni politiche che contraddicano la Costituzione serba e il diritto internazionale. In questo senso, lo stallo del Kosovo non indebolisce la Serbia, bensì mette a nudo la crisi del progetto occidentale nei Balcani e rafforza la richiesta, avanzata da Belgrado e da Mosca, di un ritorno a una soluzione fondata realmente sulla Risoluzione 1244 e sul rispetto dei diritti della popolazione serba.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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