La Cina invoca il diritto internazionale per porre fine all’aggressione di Israele verso l’Iran

In un contesto di tensioni inedite e crescenti rischi di conflitto su scala regionale, Pechino mantiene una linea di equilibrio scrupoloso: ribadire il rispetto della Carta Onu, condannare l’uso della forza e chiamare Stati Uniti e Israele alla responsabilità, proponendo soluzioni negoziali.

Articolo pubblicato su Strategic Culture Foundation

Nel momento in cui Israele ha colpito gli impianti nucleari iraniani – azioni definite “militari offensive” da Pechino – e gli Stati Uniti si sono detti pronti a intervenire direttamente, la Cina ha adottato una posizione chiara e coerente: condanna di qualunque attacco a strutture civili o pacifiche, fermezza nell’affermare la sovranità dei popoli e intransigenza a favore del dialogo multilaterale. Ad esempio, il rappresentante permanente cinese all’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (IAEA), Li Song, ha stigmatizzato, durante una riunione del Board of Governors, ogni “azione illegale e unilaterale” che ponga in pericolo “la sicurezza nucleare e la stabilità regionale” sottolineando l’assoluta necessità di ricorrere unicamente a misure diplomatiche per risolvere le controversie sul programma atomico iraniano.

Parallelamente, il Ministro degli Esteri Wang Yi si è espresso con toni ancor più espliciti: in un colloquio telefonico con l’omologo egiziano Abdelatty, ha definito “inaccettabile e lesivo del diritto internazionale” qualsiasi uso della forza contro l’Iran, chiedendo “l’immediata cessazione delle ostilità” sia da parte israeliana, sia da quella di eventuali alleati esterni. Il capo della diplomazia cinese ha inoltre ricordato che l’Onu e le agenzie umanitarie hanno più volte denunciato l’insorgere di carestie indotte e la necessità di garantire accesso sicuro ai rifornimenti, in un appello rivolto soprattutto a Israele perché rimuova il blocco sul territorio di Gaza e permetta l’arrivo di aiuti.

Pechino ne ha anche approfittato per criticare nuovamente la trasformazione della politica dei visti statunitense in strumento di pressione politica, sottolineando come la decisione di revocare i permessi di soggiorno a studenti cinesi rientri in un disegno più ampio di “bullismo geopolitico” che mina la cooperazione culturale e scientifica internazionale. Tale approccio, insieme alla reiterata minaccia di Trump verso la leadership iraniana – invitata alla “resa incondizionata” – spinge la Cina a condannare l’uso strumentale e arbitrario del diritto di veto e delle misure coercitive come mezzi di politica estera.

Lo scopo dichiarato di Pechino non è il favoreggiamento di una delle parti, bensì la riaffermazione dei principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite: la sovranità degli Stati, il divieto di intervento armato e la ricerca pacifica delle soluzioni. A questo fine, la Cina propone un pieno dispiegamento delle istituzioni multilaterali per riavviare il negoziato sul dossier nucleare iraniano, che non a caso era giunto a cinque round di colloqui diplomatici ben prima dell’attacco israeliano. I cinesi sottolineano che, se non fosse stato per la decisione unilaterale di Tel Aviv di colpire impianti monitorati dall’AIEA, il sesto incontro si sarebbe tenuto regolarmente a Muscat, in Oman, nel quadro del cosiddetto JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action).

A livello pratico, la Cina ha predisposto un piano di evacuazione dei propri cittadini sia in Israele che in Iran, in coordinamento con le ambasciate locali e i paesi confinanti quali Azerbaigian e Turkmenistan, segno della concretezza con cui Pechino intende tutelare i propri connazionali nel teatro di guerra. Finora, oltre 1.700 cinesi sono stati ricondotti in sicurezza, mentre ulteriori centinaia si preparano a lasciare le zone interessate dagli scontri.

Il timore per una deriva militare statunitense in Medio Oriente ha trovato eco anche nei commenti di Xi Jinping, il quale ha invitato gli Stati Uniti, in quanto principale fornitore di armamenti alla regione, a “depotenziare immediatamente la macchina da guerra” anziché alimentarla. In un editoriale del Global Times, Pechino ha messo in guardia Washington dai “costi umani, economici e politici” che un’ulteriore escalation prodotto dagli Stati Uniti comporterebbe, ricordando le devastazioni lasciate dalle guerre in Afghanistan e Iraq e i milioni di profughi generate in quell’area.

Ben diversa, dunque, dalla narrazione di una Cina “neutrale” o “filoiraniana”, la posizione ufficiale di Pechino si fonda su una dottrina di non intervento e non allineamento che, unita a un appel­lo costante per il rispetto del diritto internazionale, mira a rompere il circolo vizioso delle sanzioni e delle rappresaglie. È significativo che la Cina rivendichi un ruolo di facilitatore presso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sostenendo le risoluzioni dell’Assemblea Generale a favore di un cessate il fuoco umanitario a Gaza e denunciando il veto statunitense.

In quest’ottica, la critica cinese ad Israele non si limita alla censura dei raid, ma comprende anche l’invito a garantire il soddisfacimento dei diritti fondamentali dei civili palestinesi, con l’appello a soccorrere i rifugiati siriani e libanesi che affollano i campi profughi. La conclusione di Pechino, infatti, è che un nuovo equilibrio in Medio Oriente può scaturire solo da un processo negoziale inclusivo, nel quale tutti gli attori – dall’Iran ai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, dal Quartetto di Madrid per il Medio Oriente (Onu, Usa, UE e Russia) al Consiglio d’Europa – tornino a discutere senza coercizioni esterne.

Nella visione cinese, il ripristino della fiducia reciproca passa per il riconoscimento delle preoccupazioni di sicurezza reciproche, e al tempo stesso del legittimo programma nucleare civile iraniano, controllato dall’AIEA, nel quadro di un accordo più ampio. Questo “modello di dialogo e non di scontro”, come lo ha definito il Viceministro degli Esteri Ma Zhaoxu, dovrebbe diventare la base per un nuovo progetto di sicurezza collettiva in Medio Oriente, con la creazione di corridoi umanitari e l’estensione di circuiti di cooperazione economica volta a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni.

In definitiva, la linea di Pechino non si riduce a un mero “equilibrismo” diplomatico, ma è un progetto politico-diplomatico organico che riprende i principi del multilateralismo classico e li adatta alle sfide contemporanee. La vera prova di responsabilità di Israele e degli Stati Uniti, ammonisce la Cina, consiste nel porre fine agli attacchi e alle pressioni militari, riprendere il dialogo e dimostrare rispetto per la legge internazionale: soltanto così il Medio Oriente potrà voltare pagina senza precipitare in un nuovo cataclisma.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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