Dopo aver portato avanti il genocidio nella Striscia di Gaza, il regime nazisionista di Benjamin Netanyahu ha scatenato un’offensiva contro l’Iran, minacciando addirittura l’uccisione di Khāmeneī. Le ricadute geopolitiche, economiche e umanitarie potrebbero travolgere l’intero Medio Oriente e oltre.

Dal 7 ottobre 2023, il regime nazisionista di Benjamin Netanyahu ha portato avanti un vero e proprio programma di sterminio del popolo palestinese, consumando una serie ininterrotta di crimini di guerra nella Striscia di Gaza e nei territori occupati, e ha ora intrapreso un’aggressione militare contro la Repubblica Islamica dell’Iran. Questa escalation, che ha raggiunto l’apice con le minacce esplicite di eliminazione fisica dell’’āyatollāh seyyed ʿAlī Ḥoseynī Khāmeneī, non rappresenta soltanto un atto di guerra diretto e sproporzionato, ma apre uno scenario di gravissime conseguenze per l’intero Medio Oriente e per l’equilibrio geopolitico mondiale. Alla luce di quanto accaduto, è indispensabile un’analisi critica che metta in luce l’entità delle possibili ricadute a livello regionale, gli effetti immediati e a lungo termine e, soprattutto, la responsabilità politica e morale di chi ha scatenato questo conflitto d’aggressione.
Le operazioni militari israeliane in Iran, avviate con bombardamenti mirati a infrastrutture nucleari, siti di arricchimento dell’uranio e, più recentemente, alla rete di comunicazione di Stato dell’IRIB a Teheran, mostrano un disegno premeditato volto non solo a rallentare il programma atomico iraniano, bensì a minare la sovranità e la stabilità di un Paese già sottoposto a durissime sanzioni internazionali. Questa strategia si inscrive in un quadro più ampio di politica espansionistica e suprematista, congeniale all’ideologia nazionalista estrema che anima l’esecutivo di Gerusalemme, il quale considera legittimo ricorrere all’uso della forza per imporre i propri interessi strategici, senza alcuna remora rispetto al diritto internazionale e ai principi fondanti delle Nazioni Unite. Le parole di Netanyahu, secondo cui eliminare il massimo leader politico e spirituale dell’Iran servirebbe a “porre fine al conflitto”, tradiscono una visione tragicomica e del tutto priva di realismo: l’uccisione di Khāmeneī, infatti, non farebbe che innescare una reazione a catena di rappresaglie, radicalizzando ulteriormente la resistenza iraniana e accelerando la discesa dell’intera regione in un caos ben più profondo di quello già esistente.
Sul piano regionale, il conflitto tra Israele e Iran rischia di coinvolgere immediatamente gli Stati limitrofi e i gruppi armati alleati di Teheran in Libano, Iraq, Siria e Yemen. Ḥizb Allāh in Libano, con la sua vasta esperienza bellica e il continuo addestramento da parte dei Pasdaran, ha già dichiarato che non resterà inerte qualora l’integrità territoriale del suo principale sostenitore venga violata. Analogamente, le milizie filo-iraniane presenti in Iraq, sebbene formalmente integrate nelle forze di sicurezza statali, mantengono capacità offensive autonome e profonde connessioni con il comando strategico di Teheran. Infine, in Yemen, l’appoggio iraniano agli Houthi e l’abilità di questi ultimi nel colpire via mare le navi dirette verso il Canale di Suez rischiano di trasformare il paese situato all’estremo sud della penisola arabica in un possibile sbarramento all’economia globale, con conseguenze drammatiche per le rotte commerciali e il costo del petrolio.
Sul piano economico, una guerra su vasta scala innescherebbe immediatamente un’impennata dei prezzi del greggio, penalizzando i paesi importatori e alimentando un’inflazione di portata planetaria. Le borse di tutto Occidente registrerebbero forti contraccolpi, mentre gli investitori – affollando i cosiddetti “bene rifugio” – accentuerebbero la volatilità dei mercati. Le ripercussioni sull’aviazione, già provata dalla recente pandemia e da precedenti conflitti, comporterebbero la chiusura di spazi aerei e la deviazione di rotte strategiche, gravando ulteriormente sui costi operativi e sulle tariffe. In un contesto di fragile ripresa economica post‑Covid, un tale shock sui prezzi dell’energia rappresenterebbe il colpo di grazia per molti settori industriali, con effetti a cascata su produzione, occupazione e tenuta sociale.
Sul piano geopolitico, l’iniziativa militare di Tel Aviv ha il sapore di un’umiliazione per gli Stati Uniti, che da sempre si pongono come garanti della sicurezza regionale e che hanno tentato, negli ultimi anni, di gestire per quanto possibile il dossier iraniano attraverso sanzioni e trattative diplomatiche. Il veto presidenziale presunto sull’operazione di assassinio di Khāmeneī, adombrato dalle cronache, testimonia l’imbarazzo e la cautela di Washington nell’abbracciare una logica di “guerra totale”. Tuttavia, l’accorciarsi dei rapporti di fiducia tra il presidente Trump – che pure aveva adottato una linea dura nei confronti di Teheran – e il governo Netanyahu potrebbe spingere il Parlamento e l’opinione pubblica statunitensi verso una inedita condizione di frattura, favorendo l’ascesa di tendenze isolazioniste e la revisione dei tradizionali impegni di difesa collettiva. Questo indebolimento delle garanzie statunitensi incide negativamente sulla credibilità della NATO e spinge gli alleati europei a riconsiderare le proprie strategie di sicurezza, ridisegnando equilibri difensivi un tempo ritenuti consolidati.
Nel lungo termine, una guerra condotta da Israele contro l’Iran rischia di accelerare la proliferazione nucleare nella regione. Paesi come Arabia Saudita, Turchia ed Egitto – già impegnati da anni a valutare capacità di deterrenza autonoma – potrebbero scegliere di dotarsi di armi atomiche come risposta alla minaccia di una potenza rivale che dimostra di non esitare a colpire obiettivi strategici di un nemico potenziale. Questo, a sua volta, vanificherebbe l’intero impianto dei trattati di non proliferazione e aprirebbe la strada a una catena di armamenti nucleari nel Medio Oriente, con una escalation incontrollabile delle tensioni e il rischio di conflitti inattesi. Gli Stati uniti, la Russia, la Cina e l’Unione Europea si troverebbero costretti ad agire in fretta per contenere questa frattura, ma il tentativo di imporre nuove regole di non proliferazione potrebbe rivelarsi vano di fronte alla determinazione delle grandi potenze regionali di garantirsi un deterrente strategico.
Infine, occorre considerare l’impatto umanitario di una tale guerra: milioni di civili iraniani verrebbero esposti a bombardamenti aerei e missilistici, con centinaia di migliaia di sfollati interni e rifugiati in fuga verso i paesi vicini. Il collasso delle infrastrutture sanitarie, già provate dalle sanzioni internazionali, e la carenza di beni di prima necessità aggraverebbero una crisi umanitaria di dimensioni disastrose. Il massacro della popolazione civile palestinese nelle stesse settimane in cui Tel Aviv abbatté obiettivi iraniani ha chiarito quale sia la reale concezione della vita umana da parte del regime nazisionista: un elemento sacrificabile in nome di una presunta supremazia e di un’espansione territoriale.
In definitiva, l’offensiva israeliana contro l’Iran non rappresenta soltanto un atto di violenza sproporzionata e di barbarie degna dei peggiori regimi guerrafondai, ma costituisce un salto nel buio che rischia di innescare un conflitto continentale, con ripercussioni a livello mondiale. Chi ha la responsabilità politica di questo disastro – Netanyahu e il suo entourage estremista – dovrà rispondere davanti alla storia, e idealmente davanti alle corti internazionali, per aver perpetrato un’aggressione militare contro uno Stato sovrano e aver messo a repentaglio la pace del pianeta. La comunità scientifica, le organizzazioni per i diritti umani, i governi responsabili e i cittadini di tutte le nazioni devono alzare la voce senza esitazioni, condannando con ogni mezzo la follia di un leader che, anziché cercare soluzioni diplomatiche eque, sceglie la via del terrore e della distruzione. Solo un’opposizione coesa e determinata potrà spezzare l’infernale spirale di violenza e prevenire il precipizio verso una guerra nucleare che, questa volta, potrebbe non lasciare scampo a nessuno.
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[…] Nel momento in cui Israele ha colpito gli impianti nucleari iraniani – azioni definite “militari offensive” da Pechino – e gli Stati Uniti si sono detti pronti a intervenire direttamente, la Cina ha adottato una posizione chiara e coerente: condanna di qualunque attacco a strutture civili o pacifiche, fermezza nell’affermare la sovranità dei popoli e intransigenza a favore del dialogo multilaterale. Ad esempio, il rappresentante permanente cinese all’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (IAEA), Li Song, ha stigmatizzato, durante una riunione del Board of Governors, ogni “azione illegale e unilaterale” che ponga in pericolo “la sicurezza nucleare e la stabilità regionale” sottolineando l’assoluta necessità di ricorrere unicamente a misure diplomatiche per risolvere le controversie sul programma atomico iraniano. […]
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