La nozione di pubblico, le residenze per anziani e la necessità di reinternalizzare personale, servizi e prestazioni

Tra costi insostenibili e confusione normativa, l’attuale sistema di assistenza agli anziani e ai non autosufficienti evidenzia tagli, ripartizione delle spese e frammentazione tra sanità e sociale, rendendo urgente una riforma di welfare e investimenti pubblici strutturali ed efficaci.

a cura della CUB di Pisa

A quanti è capitato di visitare una Residenza per anziani? Mi sono posto questa domanda davanti all’enorme sofferenza di un familiare che, superati gli ottanta anni, non aveva la lucidità di scegliere la soluzione migliore per trascorrere le ultime settimane di vita. Pesano anche status culturali e preconcetti: per molti la Rsa diventa sinonimo di abbandono (in un’ottica regressiva e patriarcale, secondo la quale dovrebbe essere sempre e solo la donna a prendersi cura di anziani e bambini) e una soluzione che scaturisce dal disimpegno dei figli verso i genitori.

Le soluzioni dipendono ormai dal portafoglio dei singoli: quanti sono economicamente in grado di sostenere rette onerose hanno solo l’imbarazzo della scelta tra assistenza domiciliare e ricovero in una struttura, sovente gestita da cooperative in appalto. La domanda iniziale, senza risposta, dovrebbe partire dall’individuare la soluzione migliore per l’anziano e, a tal riguardo, un welfare moderno ed attrezzato dovrebbe offrire soluzioni ragionevoli, chiedendo un contributo equo alle famiglie in base ai loro redditi. Chi dovrebbe pagare allora la casa di riposo di un anziano? È lecito pensare a case di riposo gratuite o a svariate forme di assistenza domiciliare?

Partiamo da questa premessa, ammettendo di non sapere quale sia la soluzione migliore. Per anni l’assistenza domiciliare è stata pensata come misura alternativa e meno dispendiosa delle RSA; come nel caso degli asili nido, le “case di riposo” pubbliche sono in numero insufficiente: è stato demandato al terzo settore e al clero questo servizio, che dovrebbe essere parte attiva del nostro stato sociale.

La normativa nazionale sui livelli essenziali di assistenza divide a metà la spesa: non meno del 50 per cento ricade sugli utenti e sui familiari, ma nella maggioranza dei casi i costi sono elevati e insostenibili e, a quel punto, nella impossibilità di garantire la metà della retta dovrebbero intervenire i comuni, con il loro bilancio risicato e insufficiente. Pensiamo che mediamente una retta superi i 2.000 euro al mese: se l’utente è un pensionato da 1.000 euro, la famiglia dovrà comunque integrare, a meno che non ci sia una pensione di accompagnamento da versare integralmente a copertura delle spese.

La normativa è assai contorta; ci sono sentenze, poi, che assegnano il compito di pagare l’intera retta al Servizio sanitario nazionale per anziani non autosufficienti, ad esempio quelli afflitti da Alzheimer.

I ricorsi in sede giudiziaria non entrano nel merito del welfare, se lo Stato sociale si debba fare carico in toto di assistere bambini e anziani: il contenzioso riguarda la natura degli interventi per i non autosufficienti, se siano di natura sanitaria o sociale. Insomma, se non andiamo oltre il contenzioso relativo al soggetto che dovrà farsi economicamente carico della spesa, anche la nozione di intervento pubblico verrà ridicolizzata e messa in discussione.

È tempo di comprendere, intanto, cosa siano oggi le politiche pubbliche, senza prima fermarsi alla canonica distinzione tra sanità e sociale, che poi dipende da ragioni di spesa, di bilancio, di contenimento dei costi e non certo da criteri razionali e inclusivi che dovrebbero elargire servizi a prescindere.

Ma se la sanità è soggetta a vincoli di spesa che, invece, sono rimossi nel caso del settore militare, come sarà possibile in futuro tutelare la salute pubblica e garantire livelli di assistenza ai non autosufficienti?

A nostro modesto avviso, la distinzione tra sanità e non autosufficienza è foriera di confusione, creata ad arte, e alla fine va a ledere quelli che in teoria dovrebbero essere ritenuti diritti universali e sociali. Ma sono proprio questi diritti, da anni, una sorta di variabile dipendente dai vincoli di spesa e da qui nasce la confusione ormai imperante.

Alcune associazioni rivendicano una nuova normativa chiarificatrice e puntuale, ma prima di ogni altro passaggio sarebbe indispensabile chiarire l’equivoco di fondo, ossia se lo Stato voglia salvaguardare i diritti sociali oppure no, se intende farlo a prescindere dai tetti di spesa, prevedendo magari una tassazione diversa che permetta di ricavare risorse dai redditi elevati e dagli extraprofitti, per investirli direttamente nel sociale.

Non si tratta solo di intervenire con provvedimenti risolutivi, ma di uscire da quella separazione canonica tra interventi sanitari e sociali, utilizzata ad arte per ridurre ai minimi termini lo Stato sociale, pensando che i bonus possano compensare l’assenza di strutture, servizi e professionisti nell’ambito della Pubblica amministrazione.

Se avessimo strutture pubbliche funzionanti e accessibili, forse anche l’indennità di accompagnamento diventerebbe superflua; ma una scelta del genere troverebbe la prima opposizione nel privato sociale, nel mondo delle cooperative che vivono proprio sulla riduzione di spesa, applicando contratti nazionali alla forza lavoro decisamente bassi e con paghe spesso inferiori anche a un ipotetico salario minimo.

E in questo periodo, davanti ai tagli alle spese sociali che poi determineranno riduzioni orarie della forza lavoro, lavoratori e lavoratrici del terzo settore dovrebbero essere i primi ad attivarsi, senza genuflettersi, in qualità di soci, ai voleri delle cooperative.

Se esiste una sorta di immobilismo decisionale, riguarda non solo la politica, ma anche la forza lavoro e il mondo sindacale.

Paradossalmente, oggi reinternalizzare servizi e prestazioni e costruire strutture pubbliche per anziani e bambini potrebbe essere economicamente vantaggioso anche per la spesa pubblica: l’esperienza privatizzatrice, in tanti casi, ha fatto lievitare le spese a carico della collettività, registrando al contempo una forza lavoro sottopagata.

È evidente che, per evitare il corto circuito (minori servizi, maggiore spesa, stipendi da fame), una scelta radicale e dirompente sarebbe quanto mai indispensabile.

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About Federico Giusti

Federico Giusti è delegato CUB nel settore pubblico, collabora coi periodici Cumpanis, La Città futura, Lotta Continua ed è attivo sui temi del diritto del lavoro, dell'anticapitalismo, dell'antimilitarismo.

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