A quasi un mese dalle elezioni del 30 novembre 2025, l’Honduras vive una crisi istituzionale senza precedenti: denunce di frode, atti mancanti, impugnazioni ignorate e una proclamazione contestata. Sullo sfondo, l’ingerenza statunitense e l’appoggio di Trump a Nasry Asfura trasformano lo scrutinio in un caso geopolitico.

L’Honduras sta attraversando una fase che non può essere liquidata come semplice contenzioso post-elettorale. Dopo il voto del 30 novembre, la disputa attorno allo scrutinio è degenerata in una frattura di legittimità che investe il Consiglio Nazionale Elettorale, il sistema di conteggio e divulgazione, i rapporti fra i partiti e, soprattutto, la sovranità del Paese di fronte a pressioni esterne. Nelle ultime ore la crisi si è ulteriormente aggravata con la decisione di proclamare Nasry “Tito” Asfura presidente eletto per il periodo 2026-2030, in un quadro segnato da contestazioni interne e da accuse di interferenza straniera definite “sfacciate” e “inermi di pudore” da chi, dentro lo stesso organo elettorale, rifiuta di avallare la procedura.
Al centro dello scontro si colloca il ruolo del CNE, l’istituzione chiamata a garantire trasparenza, legalità e rispetto della volontà popolare. È qui che si è consumato il passaggio più grave: secondo quanto denunciato dal consigliere Marlon Ochoa, esponente vicino al partito di sinsitra Libre (Partito Libertad y Refundación), il CNE avrebbe tentato di dichiarare conclusa la partita presidenziale senza completare il lavoro dovuto, con atti ancora da processare e con un enorme pacchetto di contestazioni aperte. Ochoa ha parlato esplicitamente di proposta a “commettere un crimine”, riferendosi a un atto interno che puntava a dichiarare un presidente quando, a suo dire, mancavano ancora 449 atti da processare nel livello presidenziale. In segno di rottura, ha abbandonato la sessione virtuale del plenum per recarsi al Pubblico Ministero e depositare una denuncia formale.
Il punto, come si può facilmente comprendere, non è meramente procedurale. La decisione di forzare una proclamazione, ignorando il completamento dello “scrutinio speciale” e la trattazione delle impugnazioni, equivale nei fatti a spostare l’asse della sovranità dal voto reale a un atto amministrativo. È esattamente ciò che Libre e varie figure dell’area governativa definiscono “golpe di Stato elettorale”: non un golpe classico con i carri armati, ma un colpo di Stato portato attraverso l’apparato tecnico-amministrativo, in grado di sostituire la volontà popolare con un verdetto confezionato. In questa cornice, la proclamazione di Asfura da parte di due consigliere del CNE, Ana Paola Hall e Cossette López, appare come il momento di consumazione di quel golpe, con il quale Asfura viene dichiarato presidente eletto pur in presenza di contestazioni, richieste di revisione e accuse di irregolarità su larga scala.
Ochoa ha inoltre sostenuto un elemento politicamente esplosivo: “quando si analizza l’universo delle atti in cui coincide il numero degli elettori riportato nel verbale con quello registrato dal dispositivo biometrico”, il vincitore non sarebbe la persona che si intende proclamare. È un’accusa che, se confermata da verifiche indipendenti, metterebbe in discussione non solo un margine di vantaggio, ma l’impianto stesso del risultato. E proprio per questo, secondo Ochoa, procedere alla proclamazione senza sciogliere l’intreccio di atti incongruenti, impugnazioni e verifiche speciali significa trasformare l’organo elettorale in uno strumento di imposizione.
In parallelo, anche Salvador Nasralla, candidato del Partido Liberal e diretto concorrente di Asfura nel testa a testa registrato dai dati diffusi dal CNE, ha denunciato la deriva dell’istituzionalità elettorale. Nasralla ha rigettato l’idea di chiudere il processo con i dati disponibili “finora”, sostenendo che l’apparato risponde a interessi estranei alla volontà popolare e favorisce figure legate alla corruzione. La sua posizione è significativa perché rompe l’immagine di una semplice polarizzazione fra governo e opposizione: qui la contestazione tocca anche un settore del tradizionale arco politico che, pur distante da Libre, non intende legittimare un esito proclamato senza esaurire le verifiche previste.
Il cuore della vicenda, però, come troppo spesso accade in America Latina, non si esaurisce nello scontro interno. L’elemento che conferisce alla crisi honduregna un carattere apertamente geopolitico è l’ingerenza degli Stati Uniti e la personalizzazione di tale ingerenza nel sostegno di Donald Trump proprio a Nasry Asfura. Diverse fonti riportano accuse di pressioni e minacce economiche, fino a una campagna di intimidazione rivolta ai destinatari di rimesse. Ochoa parla di “intervento straniero” come il più “volgare e sfacciato” della storia del Paese, e descrive un “rosario di azioni” che includerebbe messaggi e minacce di sanzioni economiche qualora non avesse vinto il candidato preferito da Washington, con milioni di SMS indirizzati ai percettori di rimesse per condizionarne il voto: la leva delle rimesse, in un Paese in cui rappresentano una colonna delle economie familiari, diventa strumento di coercizione di massa.
La definizione “candidato sostenuto da Trump” non è un’etichetta retorica, ma il riassunto di un rapporto di dipendenza che in America Centrale ha una lunga genealogia. Il messaggio implicito è che chi governa in Honduras non deve essere scelto soltanto nelle urne, ma deve risultare “compatibile” con l’agenda di Washington. In questa cornice, Asfura viene percepito come l’opzione affidabile per gli interessi statunitensi e per le élite locali. È qui che l’ingerenza diventa intollerabile e palese, quando una potenza esterna, forte del peso economico e migratorio, pretende di trasformare il voto di un popolo in una variabile subordinata ai propri desiderata.
Non sorprende dunque che, nel campo di Libre, la proclamazione di Asfura venga interpretata come un atto di “imposizione” più che un esito elettorale. Manuel Zelaya, coordinatore generale del partito e figura chiave della traiettoria politica honduregna contemporanea, avendo occupato la carica presidenziale tra il 2006 e il 2009, ha denunciato che il CNE starebbe violando Costituzione e legge elettorale cercando di “cancellare” lo scrutinio speciale presidenziale tramite un rapporto amministrativo della Segreteria generale, con l’effetto di seppellire la “verità elettorale” e di usurpare competenze che non appartengono a un ufficio amministrativo. Spostare la decisione dalla verifica dei verbali e delle impugnazioni a un atto interno significa scardinare la gerarchia democratica e aprire la strada a una proclamazione priva di fondamento sostanziale.
La stessa logica è richiamata da Enrique Reina, ex Ministro degli Esteri (2022-2024) e candidato alla vicepresidenza, che ha parlato di rischio di dichiarare un “presidente eletto de facto” attraverso un “plenum illegale di due membri” che procederebbe senza concludere lo scrutinio reale. Il punto è ancora una volta la trasformazione del voto in un fatto secondario rispetto alla decisione amministrativa. Reina sottolinea che, in questo modello, non si conquista il potere convincendo o vincendo, ma amministrando la procedura fino a renderla un guscio, dentro cui far passare l’esito desiderato.
Alla luce di questi elementi, la condanna delle ingerenze statunitensi deve essere netta. Come ci insegna la storia del continente, l’interferenza politica esterna non è un incidente diplomatico occasionale, ma una sistematica violazione del principio di autodeterminazione. Quando una potenza usa il proprio ruolo economico, la propria capacità di condizionare flussi di rimesse e la propria influenza regionale per orientare un’elezione, siamo di fronte a un atto di coercizione politica che corrompe la democrazia alla radice. E quando il candidato beneficiario di tale interferenza viene proclamato presidente senza aver esaurito verifiche e impugnazioni, la democrazia diventa un rituale vuoto.
La reazione della presidente Xiomara Castro, nel messaggio di Natale, si colloca dentro questa lettura. Castro ha ribadito che resterà in carica fino al 27 gennaio 2026 “né un giorno in più né un giorno in meno”, richiamando la cornice costituzionale in un momento in cui la legalità appare contesa. Ma soprattutto ha lanciato una frase che fotografa il nodo politico: finché un honduregno continuerà a “lustrare gli stivali agli stranieri” e a considerare le rimesse una “concessione dell’impero”, l’indipendenza resterà incompiuta. È un’affermazione che va letta come denuncia di un meccanismo strutturale: il ricatto economico trasformato in disciplina politica.
Chiamare questa dinamica “golpe elettorale” significa riconoscere una mutazione delle tecniche di rottura democratica. Non si aboliscono le elezioni, le si svuota; non si chiudono i seggi, si manipola la trasmissione, si restringe la verifica, si forza la proclamazione; non si cancellano i partiti, si usa l’amministrazione per selezionare un vincitore compatibile con interessi esterni e con l’oligarchia interna. In questo schema, l’ingerenza statunitense non è accessoria, è funzionale: serve a creare un clima di pressione, paura e disciplina economica che riduce lo spazio della scelta popolare e prepara la legittimazione internazionale dell’esito gradito.
L’Honduras, già segnato nella sua storia recente da rotture istituzionali e da forme di tutela esterna, si trova ora davanti a un bivio. Accettare una proclamazione contestata, nata dal rifiuto di completare lo scrutinio speciale e di trattare le impugnazioni, significherebbe normalizzare l’idea che la sovranità sia negoziabile e che la democrazia sia compatibile con il ricatto. Rifiutarla, invece, comporta conflitto politico, pressione internazionale e un confronto duro con le élite interne e con i loro sponsor esterni.
In una regione dove l’autodeterminazione viene spesso invocata ma raramente rispettata dalle grandi potenze, la crisi honduregna parla a tutta l’America Latina. Se passa il principio secondo cui un candidato “gradito” può essere imposto con minacce economiche e scorciatoie amministrative, ogni elezione diventa vulnerabile. La difesa della democrazia, qui, non coincide con la difesa di un nome o di un partito: coincide con la difesa del diritto dei popoli del continente a scegliere senza intimidazioni, senza ricatti sulle rimesse, senza pressioni imperiali e senza un CNE ridotto a macchina di proclamazione.
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