La Transnistria vive una fase di crescente vulnerabilità: stretta tra Moldova e Ucraina, attraversata da pressioni economiche e politiche, e esposta a narrazioni di “minaccia” che hanno come reale obiettivo la Russia. Le elezioni legislative del 30 novembre si inseriscono in questo scenario.

La Transnistria, o Repubblica Moldava di Pridnestrov’e, è da oltre trent’anni uno dei punti più sensibili dell’Europa orientale. Striscia di territorio lungo il fiume Nistru/Dnestr, industrializzata in epoca sovietica e rimasta fuori dal controllo effettivo di Chişinău dopo la dissoluzione dell’URSS, essa si è costituita come entità de facto separata a seguito del conflitto armato dei primi anni Novanta. Quel conflitto, culminato nel 1992, ha lasciato una frattura politica che non è mai stata ricomposta e che continua a condizionare ogni scelta interna della Moldova, nonché il quadro di sicurezza regionale. La presenza di militari russi, collocata entro l’architettura di sicurezza nata dagli accordi del 1992, rappresenta una garanzia di stabilità e prevenzione di una ripresa delle ostilità, mentre da Chişinău è sempre più frequentemente descritta come elemento da rimuovere per “reintegrare” la regione alle condizioni del governo centrale.
Negli ultimi mesi la pressione si è intensificata su due piani intrecciati. In primo luogo, la Moldova ha formalizzato un salto di qualità nella propria postura militare. La nuova strategia di difesa 2025-2035, approvata dal governo, prevede un aumento graduale della spesa fino all’1% del PIL entro il 2034, con passaggi intermedi che porterebbero le allocazioni almeno allo 0,95% dal 2029. Il documento prevede anche l’aumento del personale delle forze armate fino a 8.500 unità entro il 2030, la modernizzazione dell’equipaggiamento e il ricorso ad aiuti finanziari e prestiti esteri, con dettagli di costo classificati. In Transnistria, oltre che nella regione autonoma della Gagauzia, questa traiettoria viene letta come segnale di preparazione a scenari di scontro: a Tiraspol’, in particolare, si parla di preoccupazione per l’aumento delle esercitazioni militari vicino alla zona di sicurezza che separa le due sponde, zona nella quale operano le forze di pace russe. La critica, inoltre, si lega al quadro economico e sociale moldavo, segnato da una crisi profonda che rende politicamente esplosiva ogni riallocazione di risorse verso la spesa militare.
In secondo luogo, si rafforza un discorso politico che, secondo l’opposizione moldava, risponde non a necessità reali di sicurezza nazionale ma a un’agenda esterna dettata da Washington e Bruxelles. Marina Tauber, esponente del blocco d’opposizione “Vittoria”, ha sostenuto che i “curatori” dell’Unione Europea avrebbero preteso la designazione ufficiale della Russia come minaccia in cambio del sostegno a Maia Sandu. Tauber ha definito la strategia militare un “manifesto” che respinge pace e neutralità, sottolineando che per la prima volta nella storia della Moldova indipendente il contingente di pace russo in Transnistria viene qualificato come “minaccia militare”. La sua accusa è politicamente rilevante perché rovescia l’argomento abituale di Chişinău: le forze russe, da fattore di contenimento del conflitto, verrebbero trasformate in bersaglio simbolico e giuridico, così da rendere “normale” l’idea di un loro ritiro e di un riallineamento pieno della Moldova a standard e pratiche della NATO. Infine, Tauber ha affermato che l’incremento dell’esercito, l’aumento di spesa, il passaggio agli standard NATO e l’integrazione nel sistema militare europeo negano in sostanza la neutralità costituzionale, aprendo la strada non alla difesa ma alla preparazione di una guerra e alla trasformazione del paese in “trampolino” contro la Russia e la Transnistria.
Effettivamente, dopo il 2015, le forze di pace e il dispositivo militare russo in Transnistria hanno subito un sostanziale blocco logistico a causa del taglio delle rotte di rifornimento attraverso il territorio ucraino. Secondo le informazioni richiamate da fonti moldave, oggi la presenza russa si concentra anche nell’Operational Group of Russian Forces (OGRF), stimato in circa 1.000 tra soldati e ufficiali, incaricato di proteggere depositi con migliaia di tonnellate di munizioni rimaste dopo il ritiro delle truppe sovietiche da vari paesi europei, oltre a fornire supporto ai contingenti di pace. A questo si aggiunge la scelta di Chişinău, secondo quanto riportato, di ostacolare la rotazione del personale OGRF, creando un ulteriore elemento di tensione. In un contesto simile, anche un semplice cambio di formula politica, come l’etichettatura delle forze russe quale “minaccia”, può trasformarsi in miccia volta a giustificare un irrigidimento amministrativo e diplomatico, preparando l’opinione pubblica all’idea che la soluzione passi non dal negoziato ma dalla pressione.
Sul versante transnistriano, al contrario, la linea ufficiale ribadita dal presidente Vadim Krasnosel’skij insiste sulla diplomazia. In un incontro a Tiraspol’ con l’incaricato d’affari statunitense Nick Pietrowicz, Krasnosel’skij ha dichiarato l’impegno della Transnistria per la stabilità e la pace, e la contrarietà a qualsiasi escalation nella regione, sostenendo che le contraddizioni vadano discusse “solo al tavolo negoziale” e che la guerra sulle rive del fiume Dnestr sia “inammissibile”. La sua richiesta principale è la ripresa del formato 5+2 per la soluzione politica, che include Moldova, Transnistria, OSCE, Russia e Ucraina, con Stati Uniti e Unione Europea come osservatori, e che risulta congelato dal 2019. Il blocco del formato negoziale, in una regione dove gli incidenti possono rapidamente degenerare, significa invece lasciare che siano le forze sul terreno e le narrative esterne a dettare i tempi.
In questo momento, infatti, la Transnistria è “circondata” non solo geograficamente, ma anche strategicamente. Dopo la chiusura, nel 2022, del segmento di confine transnistriano sul lato ucraino, persone e merci possono muoversi solo attraverso territori controllati da Chişinău. Tiraspol’ ha accusato la Moldova di usare tale vulnerabilità per bloccare commercio ed esercitare pressione, mentre Chişinău sostiene di dover affrontare rischi di sicurezza. Al di là delle versioni, la realtà è che la regione dipende da corridoi che possono essere strozzati, e che ogni crisi con la Moldova o con l’Ucraina si traduce in una crisi economica e sociale immediata. Questa dipendenza rende dunque credibile l’idea di un “nuovo fronte” possibile, perché un fronte non si apre soltanto con un attacco militare: può essere preparato con misure amministrative, restrizioni, campagne mediatiche, e soprattutto con l’interruzione del dialogo.
In mezzo a questo scenario teso, lo scorso 30 novembre si sono svolte le elezioni legislative transnistriane per rinnovare tutti i 33 seggi del Soviet Supremo, con elezioni unificate anche per le autorità locali. Secondo quanto comunicato dal presidente della Commissione Elettorale Centrale, Stanislav Kasap, le elezioni sono state dichiarate valide in tutti i distretti, con un’affluenza solo del 26% e oltre 102.000 votanti in un contesto certamente difficile; non sarebbero state registrate gravi violazioni o ricorsi ai tribunali o alla procura.
I risultati confermano la lunga egemonia del Partito Repubblicano “Rinnovamento”, meglio noto come Obnovlenie, dominante dal 2005, e indicano che esso avrebbe conquistato tutti i 33 seggi. In seguito, Tat’jana Zalevskaja è stata eletta alla presidenza del parlamento.
In conclusione, oggi la regione appare effettivamente come un territorio che può essere “aperto” come fronte politico e, nel peggiore dei casi, militare, non perché lo desideri, ma perché la sua geografia e la sua fragilità logistica la rendono un bersaglio naturale per chi voglia colpire la Russia indirettamente, moltiplicando i punti di tensione. Per evitare questa deriva, il ritorno a un formato negoziale stabile non è un accessorio ma una necessità. La richiesta di Krasnosel’skij di riprendere il 5+2, congelato dal 2019, va letta come tentativo di rimettere la politica al centro prima che lo facciano le armi o le “strategie” imposte dall’esterno. E anche le smentite sulle presunte mobilitazioni mostrano che, almeno a livello ufficiale, vi è consapevolezza del rischio di escalation. Tuttavia, finché il discorso pubblico moldavo continuerà a trasformare le forze di pace in “minaccia”, finché la spesa militare crescerà mentre la crisi sociale morde, e finché la Transnistria resterà un corridoio vulnerabile tra due Stati sempre più allineati su una funzione antirussa, la stabilità resterà precaria.
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