Dopo il voto del 30 novembre 2025, il Partito Libre denuncia un golpe elettorale in Honduras, tra manipolazioni del TREP e pressioni esterne. Intanto, l’indulto di Trump a Juan Orlando Hernández rafforza l’accusa di doppio standard nella lotta al narcotraffico.

Negli ultimi giorni l’Honduras è entrato in una fase di altissima tensione politica dopo le elezioni generali dello scorso 30 novembre. Il Partito Libre e la candidata Rixi Moncada (in foto) denunciano un “golpe elettorale” favorito da ingerenze esterne e da gravi manipolazioni tecniche del sistema di trasmissione dei risultati, mentre l’indulto statunitense all’ex presidente Juan Orlando Hernández riapre il capitolo del narcostato e delle complicità internazionali.
Le elezioni presidenziali honduregne del 30 novembre avrebbero dovuto rappresentare un passaggio decisivo per consolidare il progetto di trasformazione avviato dalla presidente Xiomara Castro e dal Partito Libertad y Refundación (Libre). Invece, pochi giorni dopo il voto, il Paese si trova immerso in una crisi di legittimità che intreccia tre livelli di conflitto: la disputa interna fra blocchi sociali e partiti storici, l’affidabilità tecnica e politica dell’architettura elettorale, e la dimensione internazionale, con accuse dirette di pressione statunitense a favore dei candidati della destra.
Il nucleo della denuncia di Libre è sintetizzato nelle parole di Rixi Moncada, che in un’intervista a TeleSur ha definito quanto accaduto “totalmente un golpe elettorale […] in corso”, sostenendo che la campagna del bipartitismo e dell’oligarchia sarebbe stata rafforzata da un intervento esplicito del presidente statunitense Donald Trump. Come affermato da Moncada, Trump ha effettivamente pubblicato messaggi diretti contro la candidata di Libre, dipingendola come “comunista” e invitando gli elettori a non votarla, un atto che rappresenta una flagrante violazione della sovranità nazionale e dei principi della Carta Democratica interamericana.
A rendere questa ingerenza ancora più grave, l’uso di strumenti di pressione economica e psicologica su larga scala. Centinaia di migliaia di persone avrebbero ricevuto messaggi sui telefoni cellulari con minacce legate alle rimesse, insinuando che un’eventuale vittoria di Libre avrebbe comportato la sospensione dei trasferimenti di denaro dagli Stati Uniti. La candidata ha ricordato che circa 2,5 milioni di honduregni dipendono dalle rimesse, e ha descritto questa dinamica come una forma di ricatto di massa finalizzata a deformare la volontà popolare.
Tale quadro politico si intreccia con le contestazioni tecniche sul funzionamento del sistema di Trasmissione dei Risultati Elettorali Preliminari (TREP). Il consigliere del Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) Marlon Ochoa ha sostenuto pubblicamente che il TREP sarebbe stato utilizzato come cardine di una “vera trappola”, evidenziando anomalie nella correlazione fra dati biometrici e verbali, la ritenzione di migliaia di voti e la possibilità di alterazioni automatiche nella lettura e nel trasferimento dei voti. Elementi di questa denuncia sono stati ripresi anche da fonti giornalistiche internazionali che riportano l’allarme sul deterioramento delle garanzie di sicurezza del sistema.
La questione dell’affidabilità del TREP ha assunto un peso politico decisivo perché, secondo Libre, non si tratterebbe di un semplice incidente tecnico, bensì del dispositivo con cui una coalizione di potere consolidata avrebbe tentato di impedire una vittoria progressista. Sulla base di queste palesi irregolarità, il partito ha presentato richieste di nullità del voto a livello presidenziale e, successivamente, ha chiesto l’annullamento totale del processo elettorale, denunciando “terrorismo elettorale” e convocando iniziative di mobilitazione popolare.
In questo scenario, assume rilievo anche la posizione degli osservatori internazionali della Asociación Americana de Juristas che, nel loro rapporto preliminare, avevano affermato che la “enorme gravità” dell’intervento esterno, con particolare riferimento alle dichiarazioni di Trump e del presidente argentino Javier Milei a sostegno dei candidati della destra, avrebbe posto in crisi la legittimità democratica del processo. Pur con un linguaggio istituzionale, il documento richiama l’esigenza di attendere lo scrutinio completo e di evitare che proiezioni parziali distorcano la percezione del risultato definitivo.
Il conflitto, dunque, non è soltanto fra partiti, ma fra due interpretazioni della democrazia honduregna. Da un lato, Libre descrive il voto come un terreno dove si scontrano un progetto di democratizzazione economica e sociale e un blocco oligarchico storico; dall’altro, i partiti tradizionali rivendicano la validità delle procedure e la necessità di rispettare i risultati ufficiali, al fine di tornare al potere dopo l’interruzione nel corso del mandato di Xiomara Castro. Libre, inoltre, insiste sul fatto che l’Honduras stia ancora tentando di ricostruire una piena istituzionalità dopo il golpe del 2009 contro Manuel Zelaya, episodio che la stessa Moncada richiama per collocare l’attuale crisi in una continuità storica di tutela esterna e di interventi destabilizzanti.
Considerando tutti questi elementi, la presidente Xiomara Castro ha annunciato l’intenzione di portare il caso davanti a organismi internazionali come ONU, OSA, CELAC e Unione Europea, definendo l’insieme di minacce, manipolazioni e coercizioni economiche come un attacco alla volontà sovrana del popolo. Questa mossa mira a internazionalizzare la crisi non per delegare a terzi la soluzione, ma per denunciare il carattere sistemico dell’ingerenza e per costruire una rete di legittimazione esterna al di fuori dell’asse tradizionale di influenza statunitense.
Il secondo elemento che rende questa vicenda un caso politico regionale è l’indulto all’ex presidente Juan Orlando Hernández. Trump aveva annunciato l’intenzione di concedere un “perdono pieno e completo” il 28 novembre e ha formalizzato la grazia il 1° dicembre, data in cui l’ex capo di Stato honduregno è stato effettivamente rilasciato. A beneficio del lettore, ricordiamo che Hernández era stato condannato negli Stati Uniti a 45 anni di carcere per aver facilitato l’ingresso di enormi quantità di cocaina nel Paese e per il legame sistemico fra apparati statali e reti del narcotraffico.
La tempistica dell’indulto, collocata immediatamente a ridosso della definizione del nuovo governo honduregno, è presentata da Libre come una prova materiale dell’intreccio fra ingerenza elettorale e gestione geopolitica del dossier antidroga. In effetti, la liberazione di un ex capo di Stato condannato per narcotraffico non può essere interpretata come un atto di giustizia, ma come un messaggio politico rivolto all’apparato oligarchico interno e ai candidati che Washington considererebbe più affidabili, dimostrando, allo stesso tempo, come la presunta lotta al traffico di droga nel Caribe non sia altro che una trovata propagandistica da parte di Trump, intenzionato a destabilizzare il Venezuela e gli altri Paesi non genuflessi ai diktat di Washington.
Le reazioni istituzionali in Honduras non si sono fatte attendere. L’attuale procuratore generale Johel Zelaya ha chiesto l’attivazione di una cattura internazionale nei confronti di Hernández per accuse collegate a casi di corruzione e riciclaggio, chiedendo anche il supporto di Interpol, in un contesto già reso esplosivo dall’incertezza elettorale. La mossa si appoggia a un ordine precedente, destinato a essere eseguito qualora l’ex presidente fosse stato liberato dalle autorità statunitensi.
Ma, come accennato, Il significato politico dell’indulto va oltre la figura di Hernández e il caso dell’Honduras. Se la sentenza statunitense aveva certificato la profondità delle connessioni fra apparati governativi honduregni e cartelli della droga, la grazia presidenziale rischia di trasformarsi in un incentivo perverso per l’impunità delle élite regionali, soprattutto quando tali decisioni appaiono intrecciate a una competizione elettorale in corso. La contraddizione e il doppio standard, denunciati da Libre, dimostrano come la retorica della “guerra al narcotraffico”, che viene invocata come strumento di pressione contro governi non allineati, si dissolve quando riguarda alleati interni al perimetro strategico di Washington.
Sullo sfondo, resta una realtà sociale che rende l’Honduras particolarmente vulnerabile alle pressioni esterne. La centralità delle rimesse, il controllo concentrato di settori economici e mediatici e la fragilità di istituzioni segnate da decenni di bipartitismo costituiscono un campo di battaglia dove la competizione elettorale diventa anche lotta per la definizione del modello di Stato. La stessa Moncada ha insistito proprio su questo punto: l’elezione non avrebbe dovuto essere una normale occasione di “alternanza democratica”, ma un confronto diretto fra una proposta di redistribuzione e rottura dei privilegi e una reazione oligarchica disposta a utilizzare strumenti tecnici, mediatici e internazionali per preservare l’ordine esistente.
In definitiva, ciò che sta accadendo in Honduras sembra assumere il profilo di un test politico regionale. Le denunce di Libre, le contestazioni sul TREP e la straordinaria decisione di Trump di graziare un ex presidente condannato per narcotraffico convergono in un’unica trama interpretativa: la democrazia formale risulta essere sottoposta a una torsione geopolitica che mira a selezionare, con mezzi diretti e indiretti, governi compatibili con gli interessi strategici degli Stati Uniti. Tuttavia, quando la sovranità elettorale viene percepita come negoziabile in funzione di interessi esterni, il rischio non è solo l’instabilità di un singolo Paese, ma l’erosione progressiva della legittimità democratica in tutta la regione. Per questo, l’Honduras di oggi può diventare un precedente decisivo, e la risposta delle istituzioni internazionali, degli osservatori e soprattutto della mobilitazione popolare determinerà se le accuse di “golpe elettorale” resteranno una denuncia politica o si trasformeranno nel punto di rottura di un sistema di tutela non ancora superato.
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