Guinea-Bissau, il golpe che ha cancellato il voto del 23 novembre

Le elezioni generali del 23 novembre in Guinea-Bissau, già segnate dall’esclusione del PAIGC e dal prolungamento controverso del mandato di Embaló, si sono concluse con un nuovo colpo di Stato militare e la distruzione dei risultati elettorali nazionali.

La crisi apertasi in Guinea-Bissau dopo le elezioni dello scorso 23 novembre rappresenta uno dei passaggi più gravi nella lunga storia di instabilità del Paese, inserito ormai stabilmente nella cosiddetta “cintura dei colpi di Stato” dell’Africa occidentale. La combinazione di un presidente contestato, istituzioni deboli, forze armate politicizzate e il peso strutturale dei traffici di droga ha prodotto un esito paradossale: una consultazione presentata come occasione di “normalizzazione” si è trasformata in una nuova rottura dell’ordine costituzionale, con un golpe che ha sospeso il processo elettorale e di fatto cancellato la volontà degli elettori.

Per comprendere la portata degli eventi di novembre occorre partire dal precedente ciclo politico. Umaro Sissoco Embaló era arrivato alla presidenza all’esito delle elezioni del 2019, in un contesto già segnato da contestazioni e accuse di brogli da parte del leader storico del PAIGC (Partido Africano para a Independência da Guiné e Cabo Verde), Domingos Simões Pereira. La sua investitura avvenne con una controversa cerimonia in un hotel di Bissau, senza il pieno riconoscimento della Corte suprema e del parlamento, alimentando fin dall’inizio l’idea di una “presa di potere di fatto” più che di una normale alternanza. Negli anni successivi, Embaló aveva sciolto due volte il parlamento, nel 2022 e di nuovo nel dicembre 2023 dopo un presunto tentativo di golpe, scegliendo di governare tramite decreti e aggravando lo scontro con l’opposizione, che parlava apertamente di “colpo di Stato costituzionale”.

Il nodo della legittimità si è fatto ancora più stretto con l’avvicinarsi della scadenza del mandato presidenziale. Per l’opposizione, la presidenza di Embaló avrebbe dovuto terminare il 27 febbraio 2025, mentre una sentenza della Corte suprema ha spostato la data al 4 settembre. Il presidente ha di fatto oltrepassato entrambe le scadenze, rinviando per mesi le elezioni e alimentando la percezione di un capo di Stato intenzionato a rimanere al potere ben oltre il mandato originario. Quando, nel marzo 2025, ha annunciato la propria candidatura per un nuovo mandato, la tensione con le forze di opposizione e con la società civile è esplosa, in un clima già avvelenato da ripetuti “allarmi golpe” e da arresti di ufficiali accusati di complotti.

La preparazione delle elezioni del 23 novembre si è svolta in questo contesto di conflitto istituzionale. Embaló ha fissato la data del voto combinando la consultazione presidenziale e quella legislativa, ma lo svolgimento del processo è stato profondamente viziato. L’elemento più grave è stata l’esclusione del principale partito storico del Paese, il PAIGC e la coalizione da esso guidata, denominata PAI–Terra Ranka, prima dalla competizione parlamentare e poi dalla corsa presidenziale, sulla base di pretesti tecnici legati ai tempi di presentazione delle liste e delle candidature. L’ex primo ministro Domingos Simões Pereira, rientrato da un lungo esilio per guidare l’opposizione, è stato a sua volta escluso dalla corsa presidenziale. In risposta, il PAIGC ha scelto di appoggiare un candidato alternativo, Fernando Dias da Costa, relativamente poco noto ma capace di raccogliere il consenso di una parte significativa dell’elettorato di opposizione.

Nonostante queste criticità, il voto del 23 novembre si è svolto in modo sostanzialmente pacifico, sotto una massiccia presenza di forze di sicurezza, comprese unità della missione di stabilizzazione della CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), e alla presenza di osservatori internazionali, in particolare dell’Unione Africana e della Comunità dei Paesi di lingua portoghese. Le missioni di osservazione hanno sottolineato l’assenza di violenze diffuse ai seggi, ma la legittimità politica dell’intero processo era già stata minata dall’esclusione del PAIGC. Nelle ore successive allo scrutinio, mentre la Commissione nazionale elettorale lavorava all’aggregazione dei risultati, sia Embaló sia Dias hanno rivendicato la vittoria al primo turno, senza attendere la proclamazione ufficiale. Secondo fonti interne alla missione di osservazione dell’Africa occidentale, i dati preliminari avrebbero indicato una sconfitta del presidente uscente, circostanza che contribuisce a spiegare quanto accaduto nei giorni successivi.

Il 26 novembre, a poche ore dall’attesa pubblicazione dei risultati provvisori, la crisi è esplosa in forma aperta. Nel centro di Bissau si sono uditi colpi d’arma da fuoco nei pressi del palazzo presidenziale, del ministero dell’Interno e della sede della Commissione elettorale. Testimoni hanno riferito di militari che chiudevano le strade principali, mentre centinaia di civili fuggivano in cerca di riparo. Nel pomeriggio, in diretta televisiva, un gruppo di ufficiali guidati dal generale Dinis Incanha, capo dell’ufficio militare della presidenza, ha annunciato di aver assunto il “controllo totale” del Paese e la costituzione dell’Alto Comando militare per il Ripristino della Sicurezza Nazionale e dell’Ordine Pubblico. L’organo ha decretato la destituzione del presidente, la sospensione di tutte le istituzioni repubblicane, la chiusura delle frontiere terrestri, marittime e aeree e l’imposizione di un coprifuoco notturno.

Nelle stesse ore, Embaló ha contattato i media internazionali dichiarando di essere stato arrestato nel suo ufficio in un “colpo di Stato” orchestrato da Incanha. Secondo il suo racconto, sarebbe stato condotto al quartier generale dello Stato maggiore e trattato “correttamente”. Contemporaneamente sono stati arrestati il capo di Stato maggiore Biague Na Ntam, il suo vice Mamadou Touré, il ministro dell’Interno Botche Candé, il candidato dell’opposizione Fernando Dias e lo stesso Domingos Simões Pereira. Dias, tuttavia, è riuscito a fuggire e a trovare rifugio presso l’ambasciata nigeriana, da dove ha accusato pubblicamente Embaló e una parte delle forze armate di aver organizzato una “finta insurrezione” per impedire la proclamazione dei risultati. Anche alcune organizzazioni della società civile, riunite nella piattaforma Frente Popular, hanno parlato apertamente di “golpe simulato” per permettere al presidente di rimanere al potere e di riorganizzare il quadro istituzionale.

Il giorno successivo l’Alto Comando ha nominato come presidente della transizione il capo di Stato maggiore, generale Horta Inta-A Na Man (in foto), che ha giurato come guida di un governo militare incaricato di dirigere un periodo di transizione di dodici mesi. Embaló, dopo una breve detenzione, è stato trasferito in Senegal grazie a una mediazione del governo di Dakar; quindi, si è spostato nella capitale della Repubblica del Congo, Brazzaville, dove ha trovato rifugio politico. La scelta di Inta-A, figura considerata politicamente vicina al presidente deposto, ha alimentato i sospetti che il golpe fosse stato quantomeno tollerato da una parte della vecchia élite al potere, più che un rovesciamento netto dell’ordine precedente.

A confermare questa impressione è stata la rapida nomina, il 28 novembre, di Ilídio Vieira Té, ex ministro delle Finanze e direttore della campagna elettorale del partito di Embaló, a nuovo primo ministro. Nel giro di poche ore è stato annunciato un governo di ventotto membri, in larghissima parte espressione della cerchia politica del presidente deposto. Mentre le autorità militari proclamavano di voler “ristabilire l’ordine” e proteggere il Paese dall’influenza dei cartelli della droga, nella capitale venivano vietate manifestazioni e scioperi, imposti coprifuochi e rafforzati i posti di blocco, in un clima di controllo militare delle strade. Nel frattempo, la sede nazionale del PAIGC a Bissau è stata assaltata da milizie armate, episodio denunciato dal partito come un attacco diretto alla democrazia multipartitica. La Nigeria, dal canto suo, ha chiesto ufficialmente alla CEDEAO l’invio di truppe per garantire l’incolumità di Dias, considerato a rischio di attentati, e ne ha assunto la protezione presso la propria ambasciata nella capitale.

Il colpo più grave all’integrità del processo elettorale è tuttavia emerso il 2 dicembre, quando la Commissione nazionale elettorale ha annunciato l’impossibilità di completare la proclamazione dei risultati. Secondo il vicesegretario esecutivo Idrissa Djalo, il giorno del golpe uomini armati e incappucciati hanno fatto irruzione nella sala di tabulazione, arrestato il presidente della Commissione, cinque giudici della Corte suprema e minacciato quarantacinque funzionari. Sono stati sequestrati i computer e i telefoni di tutti gli impiegati presenti e, soprattutto, sono state distrutte le schede di riepilogo provenienti dalla quasi totalità delle regioni, oltre al server principale che conteneva i dati aggregati. Solo i verbali di Bissau sarebbero stati risparmiati. In queste condizioni, la CNE ha dichiarato di non avere le condizioni materiali per concludere il processo, sancendo di fatto la cancellazione del voto del 23 novembre. La “verità elettorale” invocata dalle proteste popolari rimane quindi irraggiungibile, e nessuna delle due parti può provare le proprie affermazioni di vittoria.

La reazione regionale e internazionale è stata rapida ma finora poco efficace. La CEDEAO, come da protocollo, ha sospeso la Guinea-Bissau da tutti i suoi organi decisionali, mentre l’Unione Africana ha adottato una misura analoga, in linea con la sua dottrina di “tolleranza zero” per i cambiamenti di potere incostituzionali. Le missioni di osservazione della CEDEAO e dell’UA, che includevano personalità come l’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan e l’ex presidente mozambicano Filipe Nyusi, hanno condannato il golpe e chiesto la liberazione di tutti i detenuti politici, sottolineando che i due principali contendenti si erano impegnati ad accettare il verdetto delle urne. Le Nazioni Unite, per bocca del segretario generale António Guterres e dell’Alto commissario per i diritti umani Volker Türk, hanno espresso “profonda preoccupazione” per gli arresti arbitrari e la compressione delle libertà fondamentali, sollecitando un rapido ritorno all’ordine costituzionale.

Successivamente, una delegazione di alto livello della CEDEAO, guidata dal presidente della Sierra Leone Julius Maada Bio, si è recata a Bissau per avviare un dialogo con le nuove autorità, ma al momento non si registra alcuna roadmap precisa per nuove elezioni credibili. Mentre l’organizzazione regionale minaccia sanzioni contro i responsabili della rottura dell’ordine democratico, pesa anche il precedente dei casi di Mali, Burkina Faso e Niger, dove la linea dura non ha impedito la consolidazione dei regimi militari e ha anzi contribuito alla fuoriuscita dei tre Paesi dalla CEDEAO. In questo contesto, la capacità di pressione dell’organismo appare indebolita, e la giunta di Bissau sembra scommettere sulla stanchezza della comunità internazionale.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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