In Veneto, Campania e Puglia vincono coalizioni diverse ma perde la partecipazione, con affluenze tra il 41% e 45%. I presidenti vengono eletti con un consenso effettivo tra il 26% e il 29%. È l’ennesima conferma della crisi strutturale della democrazia borghese, soprattutto (ma non solo) in Italia.

Le regionali del 23–24 novembre in Veneto, Campania e Puglia confermano un dato nazionale che avevamo già analizzato in diverse altre occasioni: il crollo della partecipazione. Con affluenze tra il 41% e il 45%, la “vittoria” diventa spesso una questione aritmetica dentro una minoranza del corpo elettorale. Letta con lenti critiche, la tornata replica la crisi di legittimità del modello elettorale borghese: competizione accesa tra simboli e leader, ma convergenza su compatibilità economiche e geopolitiche, portando ad uno svuotamento del conflitto programmatico. Il risultato è una democrazia che funziona per sottrazione, in cui la metà non vota e la metà che vota si divide, consegnando il governo a chi ottiene il voto della minoranza più numerosa, non il consenso popolare.
In Veneto, il centrodestra ha confermato la sua egemonia con l’elezione di Alberto Stefani. Ma l’affluenza si è fermata al 44,65%, sedici punti in meno rispetto alla precedente tornata. Stefani ha ottenuto il 64,39% dei voti validi: se si rapporta questo dato all’intero corpo elettorale, moltiplicandolo per l’affluenza, emerge il consenso reale, pari a circa il 28,75% degli aventi diritto. Questo significa che meno di tre veneti su dieci hanno votato per il nuovo presidente. La fotografia per province e grandi comuni è coesa, la coalizione vince ovunque, la Lega risulta primo partito regionale e la performance personale di Luca Zaia nelle preferenze consiliari alimenta un racconto di continuità. Eppure, la metrica che conta per misurare la legittimazione materiale è la quota sugli aventi diritto, non la percentuale sul perimetro ristretto dei votanti. In questo quadro, la “continuità” appare più come la capacità del blocco di governo di mobilitare il suo zoccolo duro in un contesto di partecipazione depressa, che non come mandato maggioritario.
In Campania l’assetto si rovescia sul piano politico, ma non sul piano sociologico. Roberto Fico, alla guida di una coalizione ampia di centrosinistra e M5S, vince con il 60,63% dei voti validi. L’affluenza, però, crolla al 44,10%. Il consenso effettivo dell’ex presidente della Camera sul totale degli aventi diritto è dunque pari al 26,74%. Anche qui, poco più di un quarto dei cittadini ha votato il per il vincitore. Il centrodestra, con Edmondo Cirielli, sfiora il 36% dei voti validi, ma resta lontano. La lettura politica nazionale tenderà a presentare la Campania come laboratorio del nuovo campo progressista; ma la lettura demopolitica impone un’altra prudenza: con il 44% di affluenza ai seggi, qualsiasi “mandato” resta minoritario in senso sociale. E non bastano le micro-novità della legge elettorale regionale cambiare il quadro: la sfiducia nel voto è il denominatore comune.
Anche in Puglia, lo schema si ripete. Antonio Decaro, candidato della coalizione di centrosinistra con il M5S, vince con il 63,97%, una cifra significativa, se non fosse che l’affluenza è appena al 41,83%. Il consenso reale si ferma dunque a circa il 26,76% degli aventi diritto. Siamo nello stesso ordine di grandezza di Campania e Veneto: tra il 26% e il 29% di sostegno effettivo al vincitore. Per il centrodestra, la candidatura di Luigi Lobuono si ferma attorno al 35% dei voti validi, mentre le liste di coalizione consolidano la propria presenza consiliare. Ma il dato politico di fondo, al netto delle narrazioni locali, è identico: oltre la metà della popolazione sceglie di non partecipare e la quota che partecipa non rappresenta un consenso realmente maggioritario. La democrazia, in pratica, funziona solo per la minoranza che vi partecipa.
Questi tre casi regionali, dunque, convergono nella stessa diagnosi. La rappresentanza si contrae perché l’offerta politica è percepita come omologata su questioni ritenute decisive: disciplina di bilancio, impianto fiscale favorevole ai capitali mobili, gerarchia tra diritti sociali e vincoli europei, atlantismo in politica estera, esternalizzazioni nella sanità, retoriche securitarie. È quella convergenza che, come abbiamo ricordato in altre occasioni, Domenico Losurdo definiva “monopartitismo competitivo”: più partiti, ma un solo partito di sistema perimetra la sostanza delle scelte. In Veneto come in Campania e in Puglia, il conflitto si sposta su chi gestisce meglio l’esistente, non su chi lo cambia. In questo scenario, l’astensione non è apatia, ma razionalità disincantata. Se ogni opzione credibile abita lo stesso orizzonte, la scelta “voto/non voto” perde la carica civica e guadagna la logica privatistica del “a me cosa cambia?”.
C’è poi l’effetto delle leggi elettorali regionali, che in nome della governabilità irrigidiscono soglie e premi, tagliando fuori pezzi di società politica. Il caso toscano, con Toscana Rossa esclusa pur con la candidata presidente sopra il 5%, ha mostrato come la distinzione tra voto al presidente e voto di lista possa tradursi in una mutilazione della rappresentanza. In Veneto, Campania e Puglia lo stesso meccanismo opera in altre forme: soglie che schiacciano le forze minori, premi strutturati per garantire maggioranze ampie anche a partire da minoranze sociali. È la fisiologia del modello borghese quando entra in fase di stanchezza: si valorizza la stabilità, si impoverisce la pluralità, si sacrifica la mobilitazione. Il risultato non è un ordine più forte, ma un ordine più fragile, costretto a cercare legittimazione nel racconto mediatico più che nel consenso sociale.
Qui si innesta la critica marxista classica alla democrazia borghese. Gli apparati statali e para-statali – burocrazie, media system, think tank, corpi tecnici – tendono a riprodurre gli schemi di dominio delle classi proprietarie, presentando come “necessarie” scelte che sono in realtà opzioni politiche. La competizione elettorale, lungi dal rovesciare questa struttura, la incapsula: chi vuole governare deve mostrarsi affidabile per i mercati, compatibile con i trattati, prevedibile per le grandi filiere industriali e finanziarie. Il risultato è che la dimensione del conflitto – redistribuzione, pianificazione democratica, controllo sociale degli investimenti, proprietà e comando nelle filiere strategiche – esce dalla scheda. Resta la scelta del personale politico, non la scelta del programma sociale. La gente lo intuisce, e smette di votare.
Naturalmente non basta denunciare; servirebbe un’agenda di rottura. Le Regioni sono il luogo in cui la democrazia può tornare a essere sostanza: sanità pubblica rifinanziata e sottratta alla logica estrattiva delle esternalizzazioni, trasporto locale come diritto, politiche abitative contro la rendita, condizioni di lavoro nei servizi appaltati come variabile politica, uso selettivo e condizionato dei fondi europei per obiettivi sociali misurabili. Ma questa agenda non è oggi al centro della contesa. A destra prevale la quadratura tra sicurezza, infrastrutture, autonomia contabile e incentivi a impresa; a sinistra prevale il racconto della buona amministrazione e della “coesione”, spesso compatibile con le stesse ricette. La scena si fa angusta e l’uscita si intravede appena.
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