L’elezione di Catherine Connolly alla presidenza irlandese segna una svolta storica: consacra l’Irlanda come voce di punta per la causa palestinese, rilancia l’orizzonte della riunificazione dell’isola e rafforza le istanze sociali e pacifiste contro l’establishment.

L’elezione di Catherine Connolly alla presidenza della Repubblica d’Irlanda lo scorso 24 ottobre, con insediamento avvenuto l’11 novembre, rappresenta molto più di un passaggio di consegne da Michael D. Higgins a un’altra figura della sinistra. Il suo trionfo elettorale, fondato su una piattaforma fortemente filo-palestinese, socialmente radicale e apertamente favorevole alla riunificazione dell’isola, ridisegna gli equilibri simbolici della politica irlandese e invia un segnale potente al resto d’Europa, sia sul fronte dei diritti del popolo palestinese, sia su quello del superamento della partizione irlandese.
La vittoria di Connolly è di portata storica. L’elezione del 24 ottobre ha visto la candidata indipendente, sostenuta da un ampio fronte di sinistra, ottenere il 63,4% dei voti validi, contro il 29,5% di Heather Humphreys, esponente di Fine Gael, mentre il candidato di Fianna Fáil, Jim Gavin, pur ritiratosi in campagna, è rimasto in scheda fermandosi poco sopra il 7%. Si tratta della percentuale più alta mai ottenuta da un candidato in un’elezione presidenziale realmente contesa, accompagnata dal numero assoluto più elevato di primi voti di preferenza mai raccolti da un singolo candidato nella storia elettorale irlandese. Allo stesso tempo, l’affluenza si è fermata intorno al 45,8%, con un record di schede nulle o bianche pari a circa il 12,9%, segno di una combinazione peculiare tra entusiasmo per una figura percepita come di rottura e profonda disaffezione verso l’offerta politica complessiva.
Questi dati vanno letti alla luce di una campagna estremamente polarizzata. Connolly si presentava come indipendente, ma sostenuta da un’inedita coalizione di forze composta da Sinn Féin, Labour, Social Democrats, People Before Profit, Verdi e altri esponenti della sinistra parlamentare e indipendente. La candidata ha costruito la propria corsa sulla promessa di un “presidente per il popolo”, vicino alle fasce sociali colpite dalla crisi abitativa, dal carovita e dall’erosione dei servizi pubblici, ma anche sulla volontà dichiarata di usare l’Áras an Uachtaráin – la residenza presidenziale di Dublino – come piattaforma morale contro la militarizzazione dell’Unione Europea e in difesa della neutralità irlandese. Dall’altra parte, Humphreys rappresentava l’establishment di governo, con un profilo esplicitamente pro-impresa e pro-UE, incarnando la continuità con i gabinetti di centrodestra che hanno dominato la politica irlandese negli ultimi decenni.
La presidenza, per sua natura, resta un ruolo in larga parte cerimoniale, privo di potere esecutivo diretto. A livello costituzionale, il capo dello Stato promulga le leggi, rappresenta l’Irlanda all’estero e possiede alcuni poteri di garanzia, come la possibilità di rinviare una legge alla Corte Suprema. uttavia, tanto Mary Robinson quanto Michael D. Higgins hanno dimostrato che la presidenza può trasformarsi in un’autorità morale capace di incidere sul dibattito pubblico. Higgins, in particolare, ha “spinto i limiti” del ruolo criticando apertamente il governo su questioni come la crisi abitativa, l’austerità, l’aumento delle spese militari e la guerra a Gaza. Connolly ha fatto capire fin dall’inizio di voler raccogliere e radicalizzare questa eredità, dichiarando di voler usare la carica come “voce etica” della nazione contro quello che considera un modello economico ed europeo sempre più iniquo e militarizzato.
Sul piano domestico, la prima implicazione è il consolidamento di un blocco sociale e politico che chiede un cambio di rotta rispetto alle politiche degli ultimi governi. Il fatto che una candidata espressione della sinistra ottenga un risultato così netto mentre i due partiti storicamente dominanti, Fine Gael e Fianna Fáil, escono dalla competizione profondamente indeboliti, rappresenta un severo monito per la coalizione di centrodestra. Gavin, candidato di Fianna Fáil, è stato addirittura costretto a ritirarsi per uno scandalo legato a vecchie pendenze finanziarie, simbolo di un partito percepito come gravato da un lungo passato di crisi e clientelismo. Fine Gael, dal canto suo, ha visto la propria candidata sconfitta con ampio margine, nonostante un curriculum ministeriale di lungo corso. Il voto di protesta, espresso anche attraverso la massa di schede nulle e bianche, indica che per molti elettori la scelta era tra un cambiamento simbolico radicale o il rifiuto dell’intero sistema.
Connolly è riuscita a intercettare questo malcontento legandolo a questioni molto concrete. La crisi dell’alloggio, esplosa già dopo la bolla immobiliare e mai realmente risolta, resta una ferita aperta: prezzi inaccessibili, precarietà, nuove ondate migratorie in uscita e livelli di senza tetto che Higgins aveva definito “un disastro”, non più una semplice crisi. La nuova presidente ha promesso di continuare a dare voce ai settori colpiti, dalle famiglie sfrattate alle persone con disabilità, fino a chi vive situazioni di povertà energetica, collegando la questione abitativa alla critica di un modello economico che privilegia grandi interessi finanziari e immobiliari. Il suo radicamento nella contea di Galway, la lunga esperienza come consigliera comunale e sindaca, il lavoro di barrister e psicologa clinica le conferiscono una credibilità particolare su questi temi, rafforzando l’idea di una presidenza “dal basso”, attenta al tessuto sociale più fragile.
La dimensione nazionale non si esaurisce però nell’agenda sociale. Uno dei punti più significativi della campagna di Connolly è stato l’impegno per una “Irlanda unita e più eguale”. In più occasioni, la candidata ha definito la riunificazione con il Nord “una conclusione scontata”, non nel senso di un esito immediato, ma come orizzonte storico verso il quale è necessario prepararsi seriamente. La leadership di Sinn Féin ha colto questo messaggio e l’ha rilanciato con forza. La leader del partito Mary Lou McDonald ha presentato Connolly come una presidente che “comprende l’immensa opportunità dell’unità irlandese” e che parla con fiducia della possibilità di realizzarla, inserendo la sua elezione in una strategia più ampia che punta a referendum sull’unità entro la fine del decennio.
Dal punto di vista istituzionale, la presidente non può convocare un referendum di frontiera, che resta prerogativa del governo britannico per il Nord e di quello irlandese per la Repubblica, secondo gli accordi del Venerdì Santo. Tuttavia, la carica presidenziale dispone di un’enorme capacità di orientare il clima politico e culturale. Una presidente dichiaratamente favorevole all’unità, con legami politici e simbolici forti con Sinn Féin e con i movimenti che lavorano sui due fronti del confine, può contribuire a normalizzare l’idea di una futura Irlanda unita tra l’elettorato del Sud, rafforzare le reti con la società civile del Nord e dare visibilità internazionale al tema nei contesti diplomatici in cui il capo di Stato rappresenta il Paese. È inoltre significativo che Connolly si sia detta favorevole ad estendere il diritto di voto alle presidenziali ai cittadini del Nord e alla diaspora, trasformando la figura del presidente in un punto di riferimento per l’intera nazione irlandese, ben oltre i confini della Repubblica.
Se la sua elezione ha profonde conseguenze interne, è sul piano internazionale che molti osservatori hanno colto il potenziale più dirompente. Connolly è stata presentata come una candidata “pro-Palestina”, e la questione di Gaza e della solidarietà con il popolo palestinese è stata centrale nella sua campagna elettorale. a nuova presidente ha criticato con durezza la guerra israeliana contro la Striscia, definendo Israele uno “Stato genocidario” e denunciando il ruolo complice delle potenze occidentali che continuano a fornire armi e copertura politica a Tel Aviv. n questo si colloca nel solco di Higgins, che aveva parlato di “distruzione incredibile di un intero popolo” e aveva invocato l’esclusione di Israele e dei suoi principali fornitori di armi dalle Nazioni Unite. Ma Connolly sembra intenzionata a spingersi ancora oltre, trasformando la presidenza in una piattaforma permanente per la difesa del diritto all’autodeterminazione palestinese, il sostegno ai procedimenti presso la Corte internazionale di giustizia e la richiesta di sanzioni e di un embargo sulle armi.
La sua elezione rafforza la posizione dell’Irlanda come uno dei principali poli filo-palestinesi all’interno dell’Unione Europea, accanto in particolare alla Spagna. Il governo irlandese, del resto, aveva già sostenuto il ricorso del Sudafrica per genocidio contro Israele, collocandosi tra le voci più critiche di Tel Aviv nel continente europeo. La presenza di una presidente che fa della solidarietà con la Palestina un elemento identitario non solo rafforza questo posizionamento, ma può contribuire a internazionalizzarlo ulteriormente, costruendo alleanze con altri attori del Sud globale e con i movimenti sociali occidentali che chiedono la fine dell’occupazione e dell’apartheid. Non a caso, la campagna di Connolly ha raccolto un forte sostegno tra i giovani, per i quali il legame tra giustizia sociale interna e solidarietà internazionale – da Gaza alla lotta contro il razzismo e l’estrema destra – è diventato un criterio elettorale decisivo.
Altrettanto rilevante è la posizione della nuova presidente sulla neutralità irlandese e sulla cosiddetta “tripla chiave” che regola la partecipazione del Paese alle missioni militari all’estero, imponendo il consenso congiunto del governo, del Dáil (camera bassa) e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Negli ultimi anni, il governo ha aperto un dibattito sulla riforma di questo meccanismo, sostenendo che l’impasse del Consiglio di sicurezza rischia di bloccare la partecipazione irlandese a missioni di peacekeeping o di sicurezza collettiva. Una parte significativa dell’opinione pubblica, tuttavia, teme che la riforma sia una porta d’ingresso verso l’erosione della tradizionale neutralità, nata durante la Seconda guerra mondiale e poi consolidata come elemento identitario della politica estera irlandese. onnolly ha criticato la “militarizzazione” dell’UE, l’aumento delle spese militari e l’allineamento crescente con la NATO, insistendo sul fatto che la sicurezza dell’Irlanda passa per la diplomazia, il diritto internazionale, la cooperazione civile e la difesa dei diritti umani. La sua presidenza darà certamente maggiore visibilità a questa posizione, aumentando il costo politico di eventuali passi verso un ulteriore coinvolgimento irlandese in logiche di blocco militare.
In definitiva, l’elezione di Catherine Connolly segna l’ingresso dell’Irlanda in una fase nuova, nella quale la presidenza non è più soltanto la custode di una rispettabile tradizione repubblicana e culturale, ma il catalizzatore di una visione alternativa dell’ordine internazionale e della stessa struttura costituzionale dell’isola. Sul piano interno, il suo mandato rafforzerà il fronte che chiede una trasformazione sociale profonda, dal diritto alla casa alla sanità pubblica, e che contesta il duopolio storico di Fine Gael e Fianna Fáil. Sul piano nazionale-costituzionale, la presidente diventa una figura-chiave nel processo di normalizzazione dell’idea di un’Irlanda unita, contribuendo a creare quel clima di “preparazione al referendum” che Sinn Féin e altri attori chiedono da tempo. Sul piano internazionale, infine, Connolly offre al movimento globale in solidarietà con la Palestina e alle forze che difendono la neutralità e il diritto internazionale una sponda inedita: una capo di Stato europeo che ha costruito la propria legittimazione elettorale proprio sulla critica alla guerra a Gaza, alla militarizzazione dell’Europa e alle gerarchie geopolitiche tradizionali. In un’Europa segnata dall’ascesa delle destre, dalla normalizzazione dell’islamofobia e dalla subordinazione crescente alla NATO, il fatto che una piattaforma così esplicitamente filo-palestinese e unitarista trovi una vittoria schiacciante in Irlanda non è soltanto un evento nazionale. È un segnale che l’arcipelago delle resistenze, dal Mediterraneo alla frontiera atlantica, dispone ancora di margini per cambiare il corso della storia.
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