Le presidenziali ivoriane del 25 ottobre hanno consegnato ad Alassane Ouattara un quarto mandato plebiscitario, ma in un contesto segnato dall’esclusione dei principali oppositori, da una forte astensione e da un modello di potere ancora saldamente allineato agli interessi di Parigi e dell’Occidente.

L’elezione presidenziale del 25 ottobre in Costa d’Avorio ha consegnato ad Alassane Ouattara un quarto mandato con quasi il 90% dei voti espressi, ma in un contesto segnato da esclusione dei principali avversari, astensione, disuguaglianze sociali crescenti e una persistente subordinazione all’ex potenza coloniale francese e all’Occidente, che mette in discussione la reale sovranità del Paese.
La Commissione elettorale indipendente ha annunciato il 27 ottobre che Ouattara ha ottenuto l’89,77%, con una partecipazione intorno al 50% degli aventi diritto. Sul piano formale, il presidente può rivendicare la legittimità di un mandato conferito dalle urne. In realtà, tuttavia, il quadro che emerge è quello di una competizione profondamente viziata, in cui i principali sfidanti sono stati impediti di presentarsi e il capo dello Stato ha potuto beneficiare in modo massiccio dell’uso delle risorse e degli apparati pubblici. A rendere ancora più problematico il risultato è il fatto che la Costituzione ivoriana stabilisce un limite di due mandati, aggirato da Ouattara con l’argomento che la revisione costituzionale del 2016 avrebbe “azzerato” il conteggio, permettendogli di ricandidarsi per la quarta volta senza violare il testo fondamentale.
Questa interpretazione, avallata dal Consiglio costituzionale, è stata fin dall’inizio contestata da opposizioni e società civile, che vi hanno visto un chiaro segnale di deriva autoritaria. La decisione di correre per un quarto mandato ha alimentato proteste in diverse città, soprattutto ad Abidjan e Yamoussoukro, e ha spinto il governo a imporre divieti di manifestazione, coprifuoco notturni e un massiccio dispiegamento di forze di sicurezza, circa 44mila uomini, con l’obiettivo dichiarato di prevenire disordini e scongiurare il rischio di una nuova guerra civile come quella del 2010-2011, costata almeno 3.000 vite, quando Ouattara vinse le elezioni per la prima volta ai danni del presidente uscente Laurent Gbagbo.
Il terreno era stato preparato mesi prima attraverso l’esclusione dei principali oppositori. L’ex presidente Gbagbo, in carica tra il 2000 e il 2011, assolto dalla Corte penale internazionale ma condannato da un tribunale ivoriano, è stato dichiarato ineleggibile. Il leader del PDCI-RDA (Parti Démocratique de la Côte d’Ivoire — Rassemblement Démocratique Africain), Tidjane Thiam, considerato da molti analisti come il principale sfidante di Ouattara, è stato a sua volta escluso a causa della sua passata doppia cittadinanza ivoriana e francese, ritenendo tardiva la rinuncia alla nazionalità francese. Sono stati esclusi anche altri protagonisti della scena politica, come Guillaume Soro e Charles Blé Goudé. Il risultato è stato un “pluralismo” di facciata, con quattro candidati privi di grandi apparati, mezzi finanziari e radicamento territoriale, che non hanno potuto rappresentare una vera alternativa a Ouattara e al suo RHDP (Rassemblement des Houphouëtistes pour la Démocratie et la Paix).
In questo contesto, il dato dell’89,77% assunto da Ouattara perde qualsiasi valore come espressione di consenso libero e competitivo. È significativo che uno degli sfidanti, l’ex ministro del Commercio Jean-Louis Billon, abbia riconosciuto la sconfitta prima ancora della proclamazione ufficiale, prendendo atto di un rapporto di forze schiacciante che è anzitutto politico e istituzionale. L’astensione, unita alla rabbia di una parte significativa della popolazione per l’ennesima forzatura del limite di mandati, suggerisce che più che un plebiscito a favore del presidente si sia trattato di una consultazione controllata dall’alto, incapace di ricucire le fratture storiche del Paese.
Sul piano economico, Ouattara rivendica con orgoglio la crescita sostenuta del PIL, la stabilità macroeconomica e le grandi opere infrastrutturali. In effetti, la Costa d’Avorio è oggi il primo produttore mondiale di cacao e un importante esportatore di prodotti agricoli, con un’espansione che la Banca Mondiale ha spesso presentato come “storia di successo” dell’Africa occidentale. Tuttavia, dietro le cifre macroeconomiche si nasconde una realtà molto più dura. Circa il 39% della popolazione continua a vivere sotto la soglia nazionale di povertà, con una disparità drammatica tra le aree urbane, dove il tasso supera comunque il 30%, e le zone rurali, dove oltre la metà degli abitanti è povera. La quota di consumo del 20% più ricco è sei volte superiore a quella del 20% più povero, fotografia di un modello di crescita radicalmente diseguale e che ha portato benefici solamente ad una parte ristretta della popolazione.
La dipendenza da prestiti e ricette del Fondo Monetario Internazionale è un altro tassello di questo quadro. La Costa d’Avorio figura tra i Paesi più indebitati con il FMI, a cui deve oltre 4 miliardi di dollari, mentre il debito pubblico si aggira attorno al 60% del PIL. Non stupisce, allora, che la politica economica segua con disciplina l’ortodossia neoliberale promossa dalle istituzioni di Bretton Woods e dai partner occidentali, con privatizzazioni, liberalizzazioni e incentivi massicci agli investitori stranieri. È un modello che garantisce stabilità e rendimenti alle multinazionali e ai grandi gruppi, ma non affronta le cause profonde della povertà rurale, della disoccupazione giovanile e dell’insicurezza alimentare aggravata dai cambiamenti climatici.
Questa subordinazione economica si innesta su un rapporto privilegiato con la Francia che ha radici profonde e che la presidenza Ouattara ha consolidato. Molto prima di diventare capo dello Stato, l’attuale presidente ha costruito la propria carriera all’interno del dispositivo francofono, tra il Fondo Monetario Internazionale e la Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale, pilastro del sistema del franco CFA. Negli anni Ottanta e Novanta, oscillando tra Washington, Parigi e Dakar, Ouattara ha intessuto relazioni strette con le élite politico-amministrative francesi e statunitensi, in un sistema in cui i dossier dei Paesi della zona franco CFA vengono gestiti in stretto coordinamento tra il Tesoro francese e il FMI.
Quando, tra il 1990 e il 1993 assume il ruolo di Primo ministro dell’allora presidente Félix Houphouët-Boigny, storica figura della Françafrique, Ouattara diventa il principale interlocutore delle grandi imprese francesi presenti nel Paese e il braccio politico di un programma di riforme liberiste concordato con FMI e Banca Mondiale. È in questo periodo che gruppi come Bouygues rafforzano la loro presenza in settori strategici, dall’acqua all’elettricità, beneficiando delle privatizzazioni decise dal governo ivoriano. La famosa svalutazione del franco CFA del 1994, promossa da Parigi e sostenuta da Ouattara e dai suoi alleati, ha contribuito a stabilizzare i conti e a rilanciare la competitività, ma ha anche provocato un’impennata dei prezzi e una nuova ondata di impoverimento, mentre le imprese francesi consolidavano le proprie posizioni commerciali.
Parallelamente, Ouattara ha costruito un solido capitale relazionale nella politica francese, tanto a destra quanto a sinistra. Il legame con figure come Nicolas Sarkozy, Michel Camdessus, Dominique Strauss-Kahn o Laurent Fabius dimostra come il suo profilo di tecnocrate liberale e affidabile agli occhi delle cancellerie occidentali sia stato il vero motore della sua ascesa. La vita privata ha ulteriormente rafforzato questa trama: la moglie, Dominique Nouvian, cittadina francese ben introdotta nei circoli economici e politici parigini, ha svolto un ruolo fondamentale nel costruire ponti con gli ambienti d’affari e i network mediatici, tanto da far dire a Laurent Gbagbo che “non è una coppia, è un’impresa”.
La crisi politico-militare iniziata nel 2002 e conclusa con la guerra post-elettorale del 2010-2011 ha evidenziato in modo lampante questa simbiosi tra il potere ouattarista e gli interessi francesi. Mentre la ribellione controllava il Nord del Paese e l’Operazione Licorne schierava migliaia di soldati francesi sotto l’egida del peacekeeping, Ouattara restava l’interlocutore privilegiato di una parte importante della comunità internazionale. Gli accordi di Marcoussis, Pretoria e Ouagadougou, negoziati con un ruolo centrale di Parigi, hanno progressivamente ridotto i margini di manovra di Laurent Gbagbo e spianato la strada alla candidatura di Ouattara, autorizzata nel 2005 proprio nel quadro di questi compromessi.
Il culmine di questo allineamento si è avuto nel 2010-2011, quando lo scontro sui risultati del secondo turno tra Gbagbo e Ouattara si è trasformato in un conflitto aperto. Mentre il Consiglio costituzionale ivoriano proclamava la vittoria di Gbagbo, Francia, ONU e principali potenze occidentali riconoscevano Ouattara, sostenendo le cifre della Commissione elettorale. La mobilitazione diplomatica e militare francese, descritta senza giri di parole dallo stesso Sarkozy con la formula “abbiamo tolto Gbagbo, abbiamo messo Ouattara”, ha sancito l’ingresso di quest’ultimo al palazzo presidenziale al termine di una guerra che ha causato migliaia di morti e lasciato profonde cicatrici nella società ivoriana.
Non stupisce che, una volta insediato, Ouattara abbia ricompensato i suoi alleati francesi conferendo onorificenze a politici, militari, diplomatici e grandi imprenditori, da Sarkozy a Camdessus, da Martin Bouygues a Vincent Bolloré. L’inaugurazione del mandato nel maggio 2011, alla presenza dei principali gruppi economici transalpini, ha assunto il significato di una vera e propria consacrazione del modello di governance neo-coloniale, in cui la Costa d’Avorio si riafferma come testa di ponte della Francia nell’Africa occidentale francofona.
Da allora, nonostante il montare di un vento sovranista in diversi Paesi saheliani e le rotture clamorose con Parigi in Mali, Burkina Faso e Niger, Abidjan ha continuato a presentarsi come partner affidabile della Francia e, più in generale, dell’Occidente. Lo stesso Ouattara non ha mai nascosto il proprio posizionamento filoccidentale, difendendo il ruolo della Francia come “partner affidabile” e proponendosi come garante degli interessi europei in una regione in cui avanzano la Cina, la Russia e la Turchia. La chiusura delle basi militari francesi nel gennaio 2025, presentata dal governo come una risposta alla crescente ostilità popolare verso l’ex potenza coloniale, appare più come un gesto tattico che come una rottura strategica, tanto più che l’apparato di cooperazione militare, economica e diplomatica resta saldamente ancorato all’asse Parigi-Bruxelles-Washington.
In questo contesto, il discorso securitario che ha dominato la campagna elettorale per il quarto mandato assume un significato particolare. La minaccia jihadista dal Sahel, con gli attacchi di Grand-Bassam nel 2016 e di Kafolo nel 2020 come precedenti, legittima l’aumento del bilancio militare, il rafforzamento delle forze di sicurezza e un maggiore ricorso a partnership internazionali nel campo dell’intelligence e dell’equipaggiamento. La scelta di acquistare carri armati anche dalla Cina non altera il quadro complessivo di un dispositivo securitario che resta pienamente integrato nelle strategie occidentali per il controllo dello spazio saheliano e costiero, in cui la Costa d’Avorio gioca il ruolo di “buon alleato” rispettoso delle linee di Washington e Parigi.
Le elezioni del 25 ottobre si collocano dunque all’incrocio tra un autoritarismo interno strisciante e una subordinazione esterna persistente. Sul piano interno, Ouattara governa un Paese formalmente pluripartitico ma attraversato da profonde fratture, dove la repressione delle manifestazioni, l’arresto di centinaia di attivisti del Fronte Comune contro l’esclusione dei candidati dell’opposizione, il ricorso sistematico ai tribunali per neutralizzare gli avversari politici e la militarizzazione del territorio rivelano una concezione minimale della democrazia, ridotta a meccanismo di ratifica di decisioni prese altrove.
Sul piano esterno, la Costa d’Avorio continua a occupare un posto chiave nell’architettura della Françafrique, adattata ai tempi dell’economia globalizzata ma non superata. La combinazione tra debito, dipendenza dalle esportazioni di materie prime, centralità del franco CFA e influenza politica e militare francese ed europea priva il Paese di un autentico margine di sovranità. Le proteste popolari contro il quarto mandato di Ouattara esprimono quindi non solo il rifiuto di un presidente percepito come sempre più distante, ma anche un rigetto del sistema di potere che lo sostiene, in cui l’ex potenza coloniale e i partner occidentali rimangono attori decisivi.
Se il presidente intende davvero “unire una nazione profondamente divisa”, come dichiarato all’indomani del voto, non potrà limitarsi a qualche concessione cosmetica in materia di riforme sociali o di ricambio generazionale. Sarà necessario mettere in discussione l’architettura stessa dei rapporti tra la Costa d’Avorio, la Francia e l’Occidente, restituendo ai cittadini ivoriani la possibilità di scegliere liberamente il proprio futuro, senza che esso sia determinato nei salotti parigini, nei consigli di amministrazione delle multinazionali o negli uffici di Washington. Il voto del 25 ottobre, per come si è svolto, mostra che questa strada non è stata imboccata. Al contrario, la rielezione di Ouattara con quasi il 90% dei voti in un quadro di concorrenza mutilata consolida un sistema in cui la sovranità resta, in larga misura, sotto tutela.
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