Tanzania: Samia Suluhu Hassan confermata alla presidenza

Le elezioni generali in Tanzania hanno confermato Samia Suluhu Hassan alla presidenza con un risultato plebiscitario, mentre le principali opposizioni erano escluse dalla competizione. Le proteste esplose a Dar es Salaam e in altre città aprono interrogativi sulla tenuta democratica e su possibili interferenze esterne.

Le elezioni generali del 29 ottobre in Tanzania hanno sancito la rielezione di Samia Suluhu Hassan, leader del partito Chama Cha Mapinduzi, con una percentuale prossima al 98% dei voti e un dominio in ogni collegio. È un esito formalmente ineccepibile sul piano procedurale, ma politicamente controverso per la natura fortemente asimmetrica della competizione, che ha visto l’esclusione dal voto dei due principali avversari, Tundu Lissu per il Chadema e Luhaga Mpina per ACT-Wazalendo. Secondo l’opposizione, ciò ha svuotato l’elezione del suo contenuto di contendibilità e ha alimentato un clima di sfiducia, sfociato in proteste diffuse a Dar es Salaam, Mbeya e Tunduma.

Per comprendere la traiettoria che ha portato a questo esito, occorre ripercorrere il pendolo politico tanzaniano dell’ultimo quinquennio. L’ascesa di Hassan nel 2021, in seguito alla morte di John Magufuli, era stata inizialmente accompagnata da segnali di apertura: riabilitazione del confronto pubblico, sblocco dei comizi politici, rientro nella cornice multilaterale sanitaria con la partecipazione al meccanismo COVAX e una narrativa di riconciliazione nazionale. Parallelamente, la presidenza ha mantenuto continuità con l’agenda infrastrutturale del predecessore, puntando su grandi opere ferroviarie, elettrificazione rurale, promozione del turismo e valorizzazione dei minerali strategici, in un contesto macroeconomico relativamente stabile e con inflazione sotto il target della banca centrale. Questo equilibrio, tuttavia, si è incrinato via via che il calendario elettorale si faceva più vicino.

La costruzione del quadro normativo per il voto del 2025, se da un lato è stata presentata come un passo verso la razionalizzazione delle procedure e l’uso di verifiche biometriche, dall’altro non ha scalfito la percezione di un controllo sostanziale dell’esecutivo sull’indipendenza dell’amministrazione elettorale. L’esclusione del partito Chadema, formalmente motivata dal mancato rispetto di una scadenza e dalla mancata firma del codice di condotta, è stata letta dagli oppositori come un espediente regolamentare per marginalizzare la sfida più credibile, aggravata dall’arresto del suo leader con l’accusa di tradimento per aver invocato riforme prima del voto. Anche l’estromissione del candidato di ACT-Wazalendo, giustificata con irregolarità nelle procedure delle primarie, ha rafforzato l’impressione di una competizione ridotta a un rito procedurale con concorrenti minori, privi di radicamento nazionale.

Le proteste innescate dalla percezione di elezioni non competitive si sono inoltre innestate su una serie di tensioni preesistenti. Da un lato, la robustezza dei fondamentali macroeconomici non si traduce automaticamente in benessere diffuso: quasi metà della popolazione vive ancora sotto la soglia internazionale di povertà, e le opportunità occupazionali per i giovani non tengono il passo con le aspettative sociali. Dall’altro, la gestione dei conflitti tra conservazione ambientale e diritti delle comunità locali, in particolare nelle aree di insediamento maasai, ha prodotto frizioni con la società civile e attirato critiche e sospensioni di finanziamenti internazionali.

La specificità tanzaniana, tuttavia, non può essere letta soltanto con le lenti di un autoritarismo rigido. È più appropriato parlare di autoritarismo competitivo, in cui esistono forme, partiti, campagne, voti e procedure, ma gli equilibri sono strutturalmente inclinati a favore del partito-Stato che ha presieduto all’intera storia dell’indipendenza, sotto la leadership del primo presidente Julius Nyerere.

Resta poi da considerare il tema, cruciale, delle possibili ingerenze esterne, in particolare da parte degli Stati Uniti e delle altre potenze imperialiste. Washington mantiene con la Tanzania relazioni consolidate su piani molteplici: cooperazione allo sviluppo, programmi sanitari e di governance, partnership di sicurezza limitate e dialoghi economici, insieme a canali di sostegno alla società civile e ai media indipendenti. Si tratta di meccanismi visibili e in gran parte dichiarati, che rientrano nella strategia statunitense di “promozione della democrazia e dello stato di diritto”.

La Tanzania, per parte sua, mantiene margini di manovra grazie a una postura pragmatica che bilancia partner diversi, inclusa la Cina, molto presente nei settori infrastrutturali e minerari. A ciò si aggiunge una decisione simbolicamente forte in materia di sovranità economica, il bando per i cittadini stranieri in quindici settori economici a più alta intensità di piccola impresa, che ha acceso le tensioni con alcuni partner. Questi due elementi rappresentano certamente motivi di tensione con gli Stati Uniti, che non vedono di buon occhio la né presenza cinese in Africa né le limitazioni poste nei confronti delle corporation straniere.

Infine, la decisione del governo tanzaniano di limitare l’accesso ad Internet ed alle reti sociali in corrispondenza dello scoppiare delle proteste ci fa inevitabilmente pensare ad altri casi di rivolte scoppiate in maniera apparentemente spontanea, ma invero dirette quanto meno in parte dall’esterno grazie alle tecnologie del XXI secolo.

Allo stesso tempo, gli osservatori internazionali invitano il governo centrale a prendere esempio da Zanzibar, l’isola tanzaniana che gode di ampia autonomia, dove la coalizione di governo include anche ACT-Wazalendo, offrendo alla terraferma un esempio di accomodamento istituzionale dentro un sistema dominato da un partito storico, evitando una eccessiva centralizzazione del potere.

La Tanzania del dopo voto non è un’anomalia africana, ma un caso paradigmatico di come un governo di lunga durata tenti di rigenerarsi con strumenti di modernizzazione economica e di controllo politico adattivo. Riconoscere la specificità di questa traiettoria è il primo passo per immaginare un’uscita dalla crisi che tenga insieme stabilità, sviluppo e diritti, e che allo stesso tempo preservi la sovranità nazionale tanzaniana.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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