Quasi tre anni dopo il rovesciamento di Pedro Castillo, il Perù destituisce Dina Boluarte e insedia l’ennesimo presidente non eletto, José Jerí. Tra repressione, stato d’emergenza e continuità fujimorista, si acuisce la crisi di legittimità, mentre il mandato popolare spetta unicamente a Castillo.

Quasi tre anni dopo il rovesciamento del presidente costituzionale Pedro Castillo, il Perù si ritrova ancora una volta nel gorgo di una crisi istituzionale che non accenna a placarsi. La destituzione per “incapacità morale permanente” di Dina Boluarte, proclamata dal Congresso con 122 voti all’unanimità, non ha infatti segnato alcuna svolta democratica. Al contrario, ha aperto la strada alla designazione di un nuovo capo di Stato non eletto, José Jerí, figura che si inscrive nella continuità del progetto golpista e dell’egemonia parlamentare dell’estrema destra fujimorista. Sullo sfondo, il legittimo presidente eletto dal popolo, Pedro Castillo, reclama la restituzione del proprio mandato sostenendo che la sua destituzione del 7 dicembre 2022 sia stata illegale, e che l’attuale catena di eventi confermi la natura arbitraria di un potere che si riproduce per cooptazione e repressione, non per consenso popolare.
La sequenza con cui si arriva alla caduta di Boluarte rivela anzitutto il consolidarsi del Parlamento come luogo esclusivo di produzione del potere esecutivo, in aperta frizione con la sovranità popolare. Nelle ore precedenti la votazione definitiva si erano accumulate cinque mozioni di vacanza che invocavano l’“incapacità morale permanente” della presidente di fronte alla crisi di sicurezza cittadina, tra estorsioni, sicariato e attentati che hanno scosso la capitale, compreso l’attacco armato contro il gruppo musicale Agua Marina nel distretto di Chorrillos, con cinque feriti. Queste mozioni sono giunte a maturazione in un clima di forti proteste sociali, dagli autotrasportatori alla cosiddetta Generazione Z, che hanno denunciato la gestione repressiva del governo e un’incapacità strutturale di affrontare il degrado della sicurezza pubblica. L’ammissione al dibattito, con 109 voti a favore, uno contrario e nessuna astensione, è stata seguita dalla seduta notturna in cui il Congresso ha sancito la vacanza di Boluarte, applicando la successione costituzionale che ha portato il presidente del Parlamento, José Jerí, a insediarsi come capo dello Stato.
Che cosa cambia, allora, con Jerí? Nella sostanza, molto poco. Il nuovo presidente ad interim si è affrettato a promettere un percorso “di transizione” verso le elezioni presidenziali di aprile 2026 e un insediamento del vincitore a luglio, circondandosi di un linguaggio di riconciliazione e di richieste di “perdono” per gli errori del passato. Ma le parole non cancellano né la modalità d’ascesa al potere, né le scelte compiute nei primi giorni di governo. Jerí è il settimo presidente in nove anni, cifra che fotografa un’instabilità patologica: una sequenza che va da Pedro Pablo Kuczynski a Martín Vizcarra, da Manuel Merino a Francisco Sagasti, fino a Pedro Castillo e Dina Boluarte, spesso accomunati da destituzioni parlamentari e da procedimenti giudiziari, in un sistema in cui la clausola dell’“incapacità morale” è diventata grimaldello politico per rovesciare governi indesiderati. Lo stesso Jerí, del resto, non è una figura priva di macchie, in quanti, negli anni scorsi, la stampa locale ha riportato contestazioni legate a presunti favoritismi in Commissione Bilancio e, all’inizio del 2025, una denuncia per violenza sessuale poi archiviata, circostanze sufficienti perché la Coordinadora Nacional de Derechos Humanos mettesse in guardia contro il suo insediamento alla massima carica dello Stato. In pratica, si tratta di una biografia politica che non illumina certo di legittimità democratica il nuovo corso.
Come se non bastasse, la formazione del nuovo governo ha dato conferma della continuità con il ciclo autoritario esploso dopo la rimozione di Castillo. Jerí ha infatti nominato primo ministro Ernesto Álvarez, ex magistrato del Tribunale Costituzionale, che si è distinto per posizioni orientate a criminalizzare la protesta sociale. Nelle sue dichiarazioni recenti, la mobilitazione studentesca della Generazione Z è stata dipinta come un fenomeno “sovversivo” con legami terroristici, e la prospettiva di una riforma costituzionale è stata demonizzata come un tentativo “bolivariano” di seppellire l’economia nazionale. È difficile immaginare da simili premesse un governo realmente “di ampia base e riconciliazione nazionale”, come Jerí ha affermato nel rituale di giuramento dei ministri.
L’ossessione per l’ordine pubblico si è poi tradotta in un passo ulteriore, con l’annuncio, da parte del primo ministro, di voler dichiarare lo stato d’emergenza a Lima Metropolitana, misura che sospende diritti fondamentali come la libertà di riunione e di circolazione e consente l’impiego dei militari nelle strade. L’argomento, ancora una volta, è la lotta alla criminalità, e l’annuncio giunge all’indomani dell’uccisione del musicista e attivista Eduardo Mauricio Ruiz Sáenz, colpito al torace da un proiettile durante una protesta pacifica a Plaza Francia. La Procura ha confermato la morte per arma da fuoco, e il comandante generale della Polizia ha indicato nel sottufficiale Luis Magallanes, ora detenuto, l’autore dello sparo fatale. Davanti a un fatto gravissimo, la risposta del governo va dunque nella direzione di comprimere ulteriormente le libertà civili.
Non stupisce, in questo quadro, che autorevoli voci critiche, come l’analista di sicurezza Jaime Antezana, abbiano sostenuto che la rimozione di Boluarte non rappresenti alcun cambio reale, ma la prosecuzione di un dominio parlamentare che egli definisce “coalizione narco-criminale”, incardinata su forze come Fuerza Popular, Alianza para el Progreso e altre sigle che si ritrovano nel medesimo blocco di potere. È una lettura politica che, piaccia o meno, trova riscontro nei fatti, soprattutto dopo che la stessa Fuerza Popular ha annunciato il voto a favore della vacanza di Boluarte non in nome di un ripristino della sovranità popolare, ma per “iniziare una nuova tappa di governabilità, ordine e speranza”, formula vuota che nella pratica si traduce in continuità degli assetti che hanno prodotto l’attuale crisi. La designazione di figure d’estrema destra in portafogli chiave – Interno, Economia e Finanze, Giustizia, Difesa, Esteri – consolida infine l’impressione di un esecutivo inclinato alla repressione, ostile al conflitto sociale e impermeabile a ogni ipotesi costituente dal basso.
In mezzo a questo scenario, la voce di Pedro Castillo emerge con una coerenza che il tempo ha reso difficilmente silenziabile. Dal luogo di reclusione, l’ex presidente ha ricordato che la sua destituzione del 2022 non raggiunse la soglia di voti che la legge esige, e ha sostenuto che l’ammissione e l’approvazione, a larga maggioranza, delle mozioni contro Boluarte dimostrano la natura politica e non giuridica di un dispositivo – la vacanza per “incapacità morale” – usato surrettiziamente come voto di sfiducia permanente, aggirando la centralità del suffragio universale. Castillo non si limita a denunciare l’“ipocrisia dei golpisti” che portarono Boluarte al potere per poi scaricarla quando è diventata indifendibile; va al cuore della questione, indicando che la rimozione dell’“usurpatrice” con un numero di voti sufficiente ha creato un vuoto di potere che deve essere colmato abrogando la risoluzione con cui egli fu rimosso e restituendogli il mandato popolare. Del resto, se l’argomento della “stabilità” ha giustificato la successione costituzionale nel 2022, come si può oggi appellarsi alla medesima norma per perpetuare una catena di presidenti designati senza mai interpellare nuovamente gli elettori?
A nostro avviso, il Perù non ha bisogno di un nuovo presidente designato né di un lessico di facciata sulla “riconciliazione”. Ha bisogno di restituire la parola al suo popolo e di riconoscere che il colpo di mano del 2022 ha aperto una voragine che non si colma con gli equilibrismi d’aula. In questa prospettiva, la richiesta di Pedro Castillo non è l’ostinazione di un uomo, ma il segno di una ferita democratica ancora aperta. Fino a quando quella ferita non sarà curata – con verità, giustizia e ripristino della sovranità popolare – ogni cambio al vertice resterà un semplice rimpasto del medesimo potere, e ogni promessa di “nuova tappa” un capitolo in più del golpe infinito.
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