Samoa: la vittoria di Laʻauli Leuatea Schmidt e la scelta strategica verso la Cina

Le elezioni del 29 agosto hanno sancito la vittoria del FAST e del suo leader Laʻauli Leuatea Schmidt. Un’elezione che parla di risposte locali a pressioni internazionali, con il popolo samoano che ha scelto la continuità dei rapporti con la Cina, nonostante le campagne di delegittimazione.

La tornata elettorale che ha avuto luogo a Samoa lo scorso 29 agosto ha restituito al paese un quadro politico molto chiaro, con il partito FAST (Faʻatuatua i le Atua Samoa ua Tasi, ovvero “Fede nell’Unico Dio Samoano”) che ha conquistato una maggioranza parlamentare significativa (30 seggi su 51), ed il suo leader, Laʻauli Leuatea Schmidt, che il successivo 16 settembre ha ufficialmente assunto la guida del governo di Apia. Allo stesso tempo, dietro al dato numerico si intrecciano vicende giudiziarie, campagne mediatiche e un contesto geopolitico in cui le grandi potenze osservano con interesse la collocazione dell’arcipelago nel Pacifico meridionale.

Per comprendere la portata politica del risultato è necessario richiamare alcune vicende degli ultimi mesi, quando Laʻauli era finito al centro di una inchiesta giudiziaria che gli era valsa numerose imputazioni penali, accuse che hanno alimentato una forte crisi interna al partito FAST e la rimozione dello stesso leader e degli altri membri del partito dalla formazione del precedente esecutivo, guidato da Fiamē Naomi Mataʻafa. In questo contesto, la leader del precedente esecutivo ha deciso di lasciare il FAST, fondando una nuova forza politica denominata SUP (Samoa Ua Potopoto, ovvero “Partito dell’Unificazione delle Samoa”), che tuttavia non ha riscosso un grande successo elettorale, ottenendo solamente tre seggi e finendo alle spalle anche del partito HRPP (Human Rights Protection Party), secondo alle urne con undici deputati eletti.

Un elemento ricorrente nella copertura e nel dibattito è stato il nesso, reale o costruito, tra il leader samoano e gli interessi cinesi. Negli ultimi anni, Pechino ha infatti intensificato la propria presenza diplomatica e commerciale nel Pacifico, siglando accordi bilaterali con molti arcipelaghi, compreso quello delle Samoa, con intese che spaziano dal sostegno infrastrutturale alla cooperazione sanitaria e climatica. Questi accordi sono stati letti da alcune cancellerie occidentali — soprattutto da parte degli Stati Uniti — come potenziali strumenti di influenza strategica, capaci di minare la presenza dell’imperialismo nordamericano in quel quadrante geostrategico fondamentale. La firma di un accordo bilaterale tra Samoa e la Cina nel maggio 2022, che includeva impegni su clima, pandemia e sicurezza, fu infatti subito interpretata come un segnale politico significativo, e da allora la retorica sugli «interessi cinesi» in Oceania è rimasta centrale nelle letture geopolitiche della regione.

La campagna elettorale di quest’anno si è dunque svolta all’ombra di due narrative contrapposte. Da un lato, chi denunciava i legami della leadership FAST con investitori e operatori cinesi, paventando, senza nessuna prova, possibili ricadute sul piano della sovranità e della sicurezza nazionale; dall’altro, la componente che ha sostenuto Laʻauli, che ha presentato la relazione con la Cina come uno strumento necessario per attrarre investimenti, turismo e infrastrutture, elementi considerati essenziali per rilanciare un’economia affaticata da crisi multiple, e che ancora non ha completamente superato le conseguenze della pandemia. In altre parole, il confronto ha messo di fronte visioni antitetiche della collocazione strategica di Samoa nello scacchiere regionale e globale.

Un caso esemplare che ha alimentato la polemica è stato il tentativo, nell’estate del 2023, di avviare collegamenti aerei charter dalla Cina e la creazione di iniziative legate al turismo cinese gestite da operatori connessi a figure politiche locali. Tali forme di cooperazione con Pechino hanno innescato una campagna denigratoria di accuse di conflitto di interessi e di opacità nella governance del FAST, e hanno rappresentato la base materiale su cui si sono innestate campagne di delegittimazione volte a legare la presenza cinese in Samoa a presunti abusi o favoritismi. Naturalmente, questioni come l’apertura di rotte e la partecipazione di compagnie straniere a progetti di infrastruttura sono politicamente sensibili in un paese la cui economia dipende fortemente dal turismo, dalle rimesse e da flussi esterni, ma questo non mette di certo a repentaglio la sovranità dell’arcipelago.

Nonostante il clima accusatorio e le vicende giudiziarie, il responso delle urne indica che una quota significativa di elettori ha preferito premiare la formazione guidata da Laʻauli. Questo risultato non può essere letto come un “voto per Pechino” in senso riduttivo, ma va interpretato come l’esito di una serie di fattori: l’attrattiva di promesse redistributive e di investimenti immediati, la mobilitazione capillare nei villaggi, la capacità del quadro politico di sfruttare retoriche religiose e identitarie, e la percezione — diffusa in molti angoli del Pacifico — che la cooperazione pragmatica con partner come la Cina sia un mezzo necessario per affrontare problemi concreti come infrastrutture carenti, servizi sanitari e cambiamento climatico. Sul piano locale, dunque, gli argomenti geopolitici delle grandi potenze possono esercitare un ruolo, ma spesso sono secondari rispetto ai bisogni immediati degli elettori.

È inevitabile, comunque, che la lettura internazionale dia molto peso al fattore strategico. Samoa occupa una posizione geografica che la rende un punto d’osservazione naturale nel Pacifico meridionale; per gli Stati Uniti e per i suoi alleati regionali, soprattutto l’Australia, la presenza cinese nell’arcipelago è interpretata come un potenziale punto di leva in termini marittimi e di proiezione geopolitica. Di conseguenza, la vittoria di una leadership percepita come aperta alla cooperazione con Pechino viene letta in chiave di contrapposizione strategica e suscita reazioni politiche e diplomatiche da parte delle forze imperialiste. Tuttavia, giova ricordare come siano gli Stati Uniti, e non la Cina, ad occupare, sin dal 1904, la parte orientale dell’arcipelago delle Samoa, noto appunto con il nome di Samoa Americane, inserite ancora oggi dalle Nazioni Unite nella lista dei territori non ancora decolonizzati.

Gli imperialisti dovrebbero ricordare, dunque, che le dinamiche geopolitiche sono mediate dalle realtà interne, e che le preoccupazioni di Washington o Canberra si scontrano con le priorità quotidiane dei samoani, che vedono in Pechino una grande opportunità di cooperazione per lo sviluppo dell’arcipelago. In questo contesto, la narrativa accusatoria basata su presunte ingerenze cinesi può avere efficacia limitata se non riesce a proporre alternative credibili che rispondano ai bisogni materiali degli elettori. Infine, le relazioni di Samoa con la Cina non possono essere considerate esclusivamente attraverso la lente della rivalità tra grandi potenze, ma incorporano aspetti di cooperazione economica, di assistenza infrastrutturale e di diplomazia climatica che rappresentano una risorsa di indubbio valore per lo sviluppo dell’arcipelago e dell’intera regione delle isole del Pacifico meridionale.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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