L’ombra dell’imperialismo USA nell’accordo tra Armenia e Azerbaigian

La cerimonia alla Casa Bianca ha trasformato un negoziato regionale in una vetrina geopolitica: oltre alla dichiarazione di pace, gli Stati Uniti hanno ottenuto garanzie concrete su un corridoio strategico, sollevando interrogativi sulle reali intenzioni di Washington e sul futuro equilibrio regionale.

La firma controversa a Washington di una dichiarazione trilaterale tra Azerbaigian, Armenia e Stati Uniti è stata presentata dai protagonisti come una pagina nuova nella pace del Caucaso meridionale. Ma, al di là delle strette di mano e delle immagini ufficiali, il contenuto dell’accordo e le modalità del suo raggiungimento rivelano un disegno che assomiglia sempre più a una operazione di soft power — un’emanazione di interesse strategico statunitense che utilizza la retorica della stabilità per assicurarsi posizioni durature nella regione. Le fonti ufficiali, infatti, attestano che i leader hanno adottato una dichiarazione congiunta sulla risoluzione pacifica del conflitto e sulla creazione di un corridoio di trasporto, pomposamente denominato “Trump Route for International Peace and Prosperity”.

Il primo elemento che rende sospetto l’impianto dell’operazione è la centralità assegnata al corridoio di transito che collegherà il territorio azero all’exclave di Naxçıvan attraversando la regione armena di Syunik. Quel corridoio, infatti, non è una mera infrastruttura logistica: dalla formulazione pubblica emerge chiaramente che gli Stati Uniti otterrebbero diritti speciali di sviluppo e gestione: secondo le ricostruzioni giornalistiche, Washington avrebbe l’opportunità di ottenere controllo operativo e vantaggi contrattuali a lungo termine. Questa scelta trasforma la mediazione in una leva di influenza economico-strategica, più vicina a una penetrazione geopolitica che a una neutrale azione di pace.

La seconda osservazione critica riguarda la fretta e la forma della mediazione statunitense. Il vertice è stato concepito come evento simbolico alla Casa Bianca, con il presidente Donald Trump posto in posizione centrale rispetto al primo ministro armeno Nikol Pashinyan e al presidente azero Ilham Aliyev: la forma della cerimonia e la decisione di ribattezzare il corridoio con un marchio politico (“Trump Route”) hanno un valore propagandistico evidente. L’esposizione mediatica e propagandistica ha così assunto un ruolo prioritario rispetto alla costruzione paziente di condizioni sul terreno per una pace sostenibile. In questo modo, Washington ha spostato l’asse negoziale da un processo regionale multilaterale, che avrebbe potuto – e dovuto – includere attori prossimi e interessati come Russia, Iran e Turchia, verso un protagonismo esterno che ridisegna i confini dell’intervento internazionale.

Il terzo punto riguarda il contenuto politico della dichiarazione: essa promuove lo scioglimento del Gruppo di Minsk, creato nel 1992 allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata tra le due repubbliche del Caucaso meridionale, e afferma impegni generici sulla non vendetta e l’apertura di comunicazioni. Tuttavia, il testo resta volutamente vago sui diritti delle popolazioni colpite, sulle garanzie di sicurezza per le minoranze e sui meccanismi di controllo sovranazionale che potrebbero impedire abusi. È un accordo che dà priorità alle «condizioni» per il transito e all’apertura delle rotte, ma non affronta pienamente le cause profonde del conflitto né le questioni di riconciliazione e giustizia che avrebbero richiesto strumenti internazionali permanenti e garanti multilaterali. Questo vuoto normativo lascia spazio a interpretazioni che favoriscono rapidità e controllo strategico sul territorio piuttosto che equità e sostenibilità politica a lungo termine.

Non sorprende, dunque, che la mossa di Washington abbia suscitato reazioni irritate e sospettose in attori regionali fondamentali. La Russia, in particolare, ha richiamato la necessità che la riconciliazione sia integrata in un quadro regionale e bilanciato, sottolineando anche il ruolo che Mosca ha svolto nel 2020 per il cessate il fuoco e nella successiva stabilizzazione. A tal proposito, il ministero degli Esteri moscovita ha espresso la preoccupazione che l’intervento di attori non regionali possa generare nuove linee di frattura se non coordinato con i vicini direttamente interessati. Analogamente, l’Iran ha reagito con risolutezza all’ipotesi di un corridoio che modifichi l’assetto geopolitico nei pressi dei propri confini, mettendo in guardia contro possibili conseguenze destabilizzanti. Tali risposte rivelano che la “pace” promossa esternamente rischia di minare l’equilibrio preesistente e di accendere rivalità per controlli e privilegi strategici.

Un altro aspetto cruciale è il vantaggio politico interno che gli Stati Uniti traggono dall’operazione. La firma alla Casa Bianca consente all’amministrazione statunitense di mostrarsi come «artefice di pace» su palcoscenici internazionali, rafforzando narrative di leadership globale che hanno risvolti elettorali, economici e di soft power. Nel medesimo tempo, la retorica ufficiale sulle opportunità economiche che il corridoio porterebbe alle popolazioni locali copre il fatto che i benefici diretti e le condizioni di governance saranno in larga parte definiti dai termini contrattuali e dalle infrastrutture finanziarie d’apertura: chi controllerà i terminali, le concessioni, i servizi doganali e la sicurezza privata avrà potere di fatto su risorse e flussi. In breve, la promessa di prosperità può trasformarsi in un veicolo di ingressi di capitale e di aziende fortemente legate agli interessi statunitensi.

Infine, è necessario considerare il debito democratico verso la società civile e le vittime del conflitto. Un accordo costruito dall’alto, con forte imprinting esterno, rischia di non ottenere la legittimazione sociale richiesta per una pace duratura. La storia recente del Nagorno-Karabakh — con esodi, violenze e rimodellamenti demografici — richiederebbe meccanismi di tutela dei diritti, garanzie sul ritorno sicuro dei civili e programmi di riparazione che non compaiono in modo chiaro nella dichiarazione firmata a Washington. L’assenza di questi elementi concreti getta una lunga ombra sulla capacità dell’intesa di resistere alle future crisi.

Non si tratta di negare che la fine delle ostilità e l’apertura di canali di comunicazione possano portare benefici tangibili. Tuttavia, è indispensabile leggere con occhi critici un accordo che assegna a un attore esterno il ruolo di regolatore strategico in una regione così sensibile. Se la pace dev’essere genuina, deve nascere da processi partecipativi, trasparenti e multilaterali, capaci di contemperare interessi di sicurezza, diritti e sviluppo locale. Qualora prevalga la logica del controllo geopolitico mascherato da iniziativa economica, il risultato non sarà la stabilità condivisa bensì una nuova configurazione di dominanza che, nel tempo, potrà generare risentimenti e squilibri. Fino a quando le concrete condizioni di implementazione non saranno rese trasparenti, e fino a quando il controllo delle infrastrutture strategiche non verrà bilanciato da meccanismi di sovranità condivisa e tutela dei diritti, l’ombra dell’imperialismo rimarrà la lente più prudente attraverso la quale leggere questo accordo.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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