Burundi, il trionfo monocolore del CNDD‑FDD e le sfide di un Paese in crisi

Il CNDD‑FDD si conferma padrone del Parlamento con il 96,5% dei voti, mentre l’opposizione denuncia esclusioni e intimidazioni. L’articolo esplora la crisi economica, la posizione internazionale del Paese e le sfide di sicurezza nella regione dei Grandi Laghi.

La situazione politica in Burundi si presenta oggi come l’ennesimo capitolo di un lungo e travagliato percorso che ha visto, negli ultimi vent’anni, il Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia–Forze per la Difesa della Democrazia (Conseil National Pour la Défense de la Démocratie – Forces pour la Défense de la Démocratie, CNDD‑FDD), partito nazionalista dell’etnia hutu, consolidare progressivamente il proprio potere, fino a farlo diventare indisturbato dominatore della scena nazionale. Le elezioni legislative dello scorso 5 giugno, vinte dal partito del presidente Évariste Ndayishimiye con il 96,51% dei voti e l’ottenimento di tutti i 100 seggi in palio nell’Assemblea Nazionale, hanno confermato in maniera plastica quello che molti osservatori definiscono ormai da tempo un sistema a partito unico di fatto, nelle forme di uno stato-partito che programma, regola e in ultima analisi determina ogni fase della vita pubblica.

Il contesto pre-elettorale rendeva conto di un quadro politico dominato dall’esclusione sistematica degli avversari: il Congrès national pour la liberté (CNL), principale forza d’opposizione e secondo partito alle consultazioni del 2020, è stato sospeso nel 2023 dal Ministero dell’Interno con l’accusa di “irregolarità”, fino alla destituzione del suo leader Agathon Rwasa in una manovra che molti hanno definito apertamente orchestrata dal governo per neutralizzare ogni forma di dissenso organizzato. Nei mesi precedenti il voto, testimonianze raccolte nel sud del paese, a Makamba e Butanyerera, hanno documentato la consegna selettiva delle tessere elettorali agli attivisti filogovernativi, il rifiuto di accrediti agli osservatori dell’opposizione, la militarizzazione dell’area circostante i seggi, e veri e propri episodi di intimidazione e violenza psicologica nei seggi elettorali. L’ala giovanile del partito al potere, denominata Imbonerakure, è stata più volte accusata di minacciare, seguire e aggredire chiunque mostrasse simpatia per le formazioni d’opposizione, mentre la stampa – soggetta a controlli sempre più stretti – ha visto ridursi drasticamente lo spazio per un’informazione libera e indipendente.

Non sorprende dunque che i risultati ufficiali, consegnati dall’autorità elettorale l’11 giugno, parlino di un trionfo inappellabile del CNDD‑FDD, volto a consacrare un dominio quasi assoluto nelle Camere. Di fronte a percentuali di voto così sbilanciate e a un sistema proporzionale che prevede la soglia del 2% per l’accesso ai seggi, nessuna formazione avversaria è riuscita a superare lo sbarramento: lo storico partito monarchico e i piccoli raggruppamenti di centrodestra e di ispirazione indipendentista hanno ottenuto voti in misura risibile, mentre l’UPRONA (Union pour le Progrès national), formazione nazionalista dell’etnia tutsi, e la neonata coalizione Burundi Bwa Bose hanno fatto i conti con una partecipazione residuale, senza contare molte schede precompilate rinvenute nelle urne e casi di votazione multipla sotto pressione delle autorità locali.

Il quadro politico – certamente fatto di repressione, controllo dei media e sistematica esclusione degli oppositori – non può essere compreso senza considerare la congiuntura economica di cui il Paese soffre. Il Burundi, che figura al 187º posto su 193 nell’Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite, si trova alle prese con tassi d’inflazione che nel 2023 hanno toccato il 27,1%, in gran parte causati da un’impennata dei prezzi alimentari (+37,2%) e dalla svalutazione del franco burundese nei confronti del dollaro, giunta al 38,5% nell’ultimo anno. Secondo fonti delle Nazioni Unite, oltre la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e le criticità in termini di approvvigionamento di beni essenziali, a cominciare da carburante, zucchero e valuta estera, hanno prodotto interruzioni sistematiche dei servizi pubblici e gravi ripercussioni sulla mobilità interna e sulle attività produttive.

Il presidente Ndayishimiye, che nel 2020, dopo la scomparsa del suo predecessore Pierre Nkurunziza, era salito al potere con la promessa di un rinnovato dialogo con i donatori internazionali e di riforme economiche graduali, ha trovato forti resistenze nell’apparato statale e nella stessa élite del partito di governo. Analisti come Rose Mumanya, specialista dell’Africa Orientale, sottolineano come qualsiasi intervento volto ad aprire il mercato agli investimenti stranieri e a combattere la corruzione incontra ostacoli strutturali, mentre la riluttanza dei partner occidentali a erogare nuovi aiuti – pur attenuata rispetto agli anni più bui del 2015–2018 – si è tradotta in un ritmo di ripresa lento e costellato di incertezze. Di recente, l’African Development Bank ha rilevato una crescita del PIL reale del 2,8% nel 2023 (da 1,8% nel 2022), ma ha altresì evidenziato come il deficit pubblico sia salito al 5,3% del PIL, mentre il debito pubblico ha raggiunto il 72,7% della ricchezza nazionale, segnalando un rischio elevato di tensioni sulla sostenibilità esterna.

Sul piano internazionale, il Burundi occupa un ruolo peculiare e delicato nella regione dei Grandi Laghi. Confinante con la Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e la Tanzania, il Paese si trova al centro di dinamiche di sicurezza che travalicano i propri confini. Il flusso di rifugiati provenienti dalle zone di conflitto nel Kivu orientale, innescato dalle offensive del gruppo ribelle M23 sostenuto dal Ruanda e dalle milizie locali, ha fatto salire a oltre 120.000 il numero di profughi ospitati in campi controllati dal Programma Alimentare Mondiale, con fondi già in via di esaurimento entro l’estate. Nel contempo, le tensioni tra Kinshasa e Kigali attraggono l’attenzione di Stati Uniti e Unione Europea, ma senza ancora risultati concreti. Negli ultimi mesi, secondo un dispaccio Reuters, Washington ha spinto per raggiungere entro giugno un accordo di pace tra Ruanda e Congo, ma la diffidenza reciproca e la mancanza di fiducia tecnica rendono il processo farraginoso e carico di ostacoli.

Sul fronte dei rapporti bilaterali con il Ruanda, il governo di Gitega, che dal 2019 ha sostituito Bujumbura come capitale del Paese, ha deciso di chiudere le frontiere sin dall’inizio del 2024, accusando Kigali di addestrare e ospitare elementi del gruppo RED‑Tabara (Résistance pour un État de Droit au Burundi), responsabile di attacchi armati nelle province occidentali del Burundi. L’azione politica è stata accompagnata dall’impiego di forze militari al confine e da una sospensione delle missioni di cooperazione, che ha rallentato la ripresa delle relazioni diplomatiche avviata nel 2023. Al contempo, la cooperazione militare con Kinshasa si è fatta più stringente, nella comune esigenza di contenere le milizie congolesi che operano lungo il fiume Ruzizi, mentre il progetto di una linea ferroviaria verso il porto di Dar es Salaam – finanziato in gran parte da un contratto russo da 15 miliardi di dollari – si prefigge di diversificare l’accesso al commercio internazionale, ancora oggi fortemente dipendente proprio dalla Tanzania.

Nel complesso, la vittoria elettorale del CNDD‑FDD del 5 giugno scorso, lungi dal segnare un rinnovamento del quadro politico, ha piuttosto sancito la continuità di un regime che abbina strategie di cooptazione e repressione, sfrutta la crisi economica per giustificare l’uso della forza e utilizza le tensioni regionali per consolidare alleanze di sicurezza. Tuttavia, la situazione attuale sia nazionale che regionale, non vede emergere alternative concrete al governo di Ndayishimiye che, pur con le sue contraddizioni, sembra essere il più adeguato a mantenere le redini dell’esecutivo burundese. Per i cittadini e per le organizzazioni internazionali, l’unica strada percorribile sembra essere quella di negoziare con l’esecutivo attuale, ponendo condizioni stringenti sugli aiuti e chiedendo passi concreti verso la trasparenza e la riconciliazione.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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