Mentre le elezioni di ogni tipo registrano affluenze sempre minori, i referendum, pur sostenuti dalla grande maggioranza dei votanti, vengono invalidati dal quorum al 50 % + 1, evidenziando le contraddizioni del sistema della democrazia borghese italiana.

L’Italia delinea sempre più chiaramente una crisi di legittimità democratica: mentre alle elezioni amministrative si è registrata un’affluenza che in alcuni casi non ha superato il 50% degli aventi diritto, come a Trento e a Ravenna, senza tuttavia per questo metterne in dubbio i risultati, i cinque quesiti referendari, sostenuti dalla grande maggioranza degli elettori, sono stati invalidati dalla regola del quorum al 50% + 1. Da tempo, infatti, in Italia si registra una marcata disaffezione nei confronti della politica, con i dati sull’affluenza alle urne in calo in tutti i tipi di elezioni, salvo poche eccezioni: nonostante ciò, i risultati delle elezioni comunali vengono automaticamente convalidati, qualunque sia la percentuale di partecipazione. Una regola che assegna di fatto il potere di governo anche a una minoranza tra le minoranze, normalizzando l’assenza del corpo elettorale e rendendo qualsiasi risultato «legittimo» pur perseguendo interessi che non necessariamente rispecchiano il consenso popolare complessivo.
Facciamo degli esempi matematici. A Trento, Franco Ianeselli (centro-sinistra) ha ottenuto la conferma come sindaco con il 54,65% dei voti, ma, tenendo conto di tutto il corpo elettorale, solo il 27,29% degli aventi diritto ha votato per l’attuale sindaco di Trento. A Ravenna, Alessandro Barattoni ha mantenuto la massima carica cittadina tra le file del Partito Democratico con 58,15% delle preferenze al ballottaggio, ma con solo il il 28,82% del consenso effettivo. A Genova, l’ex martellista Silvia Salis ha riportato il capoluogo ligure al centro-sinistra con il 51,48% delle preferenze, ma, considerando l’affluenza che ha superato di poco la quota del 50%, il suo consenso effettivo risulta essere pari al 26,72%. Insomma, tutti sindaci eletti con il sostegno di poco più di un quarto del corpo elettorale cittadino.
In netto contrasto, i cinque quesiti referendari su lavoro e cittadinanza, pur ottenendo un consenso schiacciante tra chi si è recato al voto, con cifre superiori all’85% per i quattro quesiti sul lavoro e “solo” al 65% per quanto riguarda il quinto quesito sulla cittadinanza, sono stati dichiarati nulli per non aver raggiunto il quorum del 50 % + 1 degli aventi diritto, vista l’affluenza del 29,89%. Questa contundente discrepanza tra la validità automatica dei risultati elettorali e il vincolo assoluto imposto al referendum abrogativo appare meno un meccanismo di garanzia della responsabilità civica e più un cavillo che depotenzia la democrazia diretta.
Eppure, sempre tenendo conto della matematica, l’effettiva percentuale di elettori che ha votato Sì risulta essere molto simile a quella dei cittadini che hanno votato per i sindaci eletti a Trento, Ravenna o Genova (ma i calcoli sarebbero molto simili anche per altri comuni, come Bolzano e Pordenone): per il quesito sulla reintegrazione dopo licenziamento illegittimo il Sì corrisponde al 26,17 % dell’elettorato; sulla revoca delle limitazioni alla discrezionalità giudiziaria in materia di licenziamenti al 25,71 %; sulla liberalizzazione dei contratti a termine tramite agenzia al 26,16 %; sull’abolizione della responsabilità solidale nei subappalti al 25,64 %; infine, solamente il quesito sulla cittadinanza italiana ha raccolto un’adesione effettiva inferiore, pari al 19,53 % degli aventi diritto.
Dal nostro punto di vista, il proliferare di soglie di validità asimmetriche fra sistemi rappresentativi e strumenti di democrazia diretta non è un difetto formale, ma un’espressione della natura borghese dello Stato. Le elezioni amministrative (ma anche quelle regionali e nazionali), senza quorum, trasformano il voto in un rituale che non richiede un consenso minimo per conferire potere, garantendo alle élite politico-imprenditoriali la possibilità di accaparrarsi il controllo delle cariche pubbliche attraverso il mantenimento di clientelismi, l’utilizzo dei media e risorse economiche superiori. Allo stesso tempo, il quorum referendario si configura come una barriera artificiale, uno steccato eretto contro la volontà popolare che, quando chiede la cancellazione di norme percepite come ingiuste (come i vincoli sul reintegro dopo licenziamenti illegittimi), si scontra con una “iper-protezione” delle leggi capitalistico-borghesi.
Questa contraddizione non è casuale: da un lato si richiede sensibilità civica e mobilitazione costante per legittimare il potere delle istituzioni rappresentative, dall’altro si attribuisce all’astensione il potere di invalidare qualunque risultato sgradito alle classi dominanti. In tal modo, il potere economico-politico può contare su una democrazia formale sempre disponibile a conferirgli mandato, mentre qualsiasi forma di controllo diretto da parte delle masse viene neutralizzata dall’astensionismo strutturale, che, nelle condizioni odierne di forte sfiducia da parte dell’elettorato, rende praticamente impossibile il raggiungimento del quorum referendario.
La crisi di partecipazione, testimoniata da percentuali sempre in calo in ogni tipologia di elezione, non è dunque un dato tecnocratico, ma la manifestazione di un meccanismo di classe che lega lo spazio decisionale alla capacità di mobilitazione delle forze popolari. Le masse, scoraggiate dalla sensazione che il proprio voto non sia in grado di cambiare lo stato di cose esistenti, si auto-escludono dalla partecipazione, consegnando il monopolio delle politiche locali e nazionali a chi dispone delle risorse necessarie per organizzare clientelismi e campagne mediatiche.
La nostra analisi porta inevitabilmente a concludere che la democrazia borghese, così com’è strutturata in Italia, funziona da macchina di legittimazione fittizia: essa offre spazi di partecipazione laddove il potere non corre rischi reali e chiude le porte della sovranità popolare quando le decisioni riguardano diritti economici e sociali. In questo contesto, la democrazia diretta diventa un’arma spuntata, resa innocua da un quorum concepito per essere quasi infrangibile, mentre la democrazia rappresentativa si trasforma in un palcoscenico in cui si alternano figure e partiti fedeli al grande capitale, indipendentemente dall’effettiva adesione degli elettori.
Per scardinare questo sistema, un progetto di trasformazione a breve termine dovrebbe partite dall’abolizione del quorum referendario, ripristinando il principio che la volontà della maggioranza dei votanti valga sempre come criterio di validità. Al contempo, è necessario promuovere forme di partecipazione continua, affinché le masse si rendano conto del loro potenziale di pressione sulle istituzioni. Infine, una riforma costituzionale dovrebbe rivedere il sistema elettorale verso un proporzionale puro, con sbarramenti “naturali”, e garantire rappresentanza adeguata alle organizzazioni della classe lavoratrice.
Solo attraverso un’azione di massa, capace di unire rivendicazioni economiche e lotte politiche, sarà possibile trasformare una democrazia formale, che oggi serve gli interessi borghesi, in una vera democrazia socialista, in cui il potere risieda effettivamente nelle mani delle masse lavoratrici. In mancanza di questa svolta, l’astensionismo rimarrà la forma principale di protesta politica, confermando giorno dopo giorno la decadenza di una democrazia che non sa più rispondere alle esigenze materiali delle classi popolari.
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