La disuguaglianza in Italia: come la crisi ha accentuato le disparità

In Italia, la disuguaglianza economica è cresciuta notevolmente rispetto ad altri paesi europei. La disparità di reddito, iniziata negli anni ’90 con privatizzazioni e appalti, si è acuita con le crisi del 2008 e del periodo pandemico, riducendo il potere d’acquisto delle classi più vulnerabili.

La disuguaglianza in Italia, risultato della distribuzione ineguale dei redditi, è maggiore nel nostro paese rispetto ad altri paesi Ue. Questa disparità inizia a manifestarsi con i primi anni novanta, tra privatizzazioni ed esternalizzazioni dei servizi pubblici, ricorrendo ad appalti e subappalti.

La crescita delle disuguaglianze non è stata costante nel corso degli ultimi 35 anni; in alcuni periodi sembrava aver subito un certo rallentamento, ma sono proprio le due crisi, nel 2008 e nel periodo pandemico, a determinarne la crescita, con il diffuso calo del potere di acquisto delle classi sociali.

L’Italia è tra i paesi Ue ove le disuguaglianze sono maggiormente cresciute. Gli aumenti salariali sono stati differenziati e, in gran parte, inferiori al reale costo della vita; i ceti più abbienti registrano aumenti decisamente maggiori (in percentuale) rispetto agli altri. La borghesia è diventata più ricca nell’ultimo trentennio, invariata la condizione di vita della piccola borghesia. Tra gli autonomi, registriamo un diffuso impoverimento, mentre la classe operaia presenta condizioni peggiori del passato, alle prese con la perdita del potere di acquisto e la diffusa precarizzazione.

Se guardiamo alle retribuzioni effettive, operai e pensionati, rispetto a 40 anni fa, sono tuttavia più distribuiti in alcune fasce di reddito. Molte partite IVA scendono verso il basso, così come le famiglie monoreddito o quelle con contratti part-time. La mobilità sociale vale molto di più verso il basso che verso l’alto, stando almeno ai dati forniti dalla Banca d’Italia. Prova ne sia anche la tendenza diffusa a raggiungere lo stesso livello di istruzione dei nostri padri. Rispetto a 40 anni fa, diplomati e laureati sono senza dubbio cresciuti di numero, ma intanto sono lontani i tempi in cui la scolarizzazione era premessa per la mobilità sociale, per migliorare le condizioni di lavoro e di retribuzione.

L’equivoco di fondo è rappresentato da una ricostruzione delle classi sociali in base solo ai consumi e agli stili di vita, evitando di relazionarsi con le caratteristiche proprie del modo di produzione capitalista. Nei fatti, accumulandosi redditi e ricchezze nelle mani di pochi, sono cresciute le famiglie povere, risucchiando in questa condizione anche settori della piccola borghesia.

La fine del sogno italiano di diventare classe media arriva a metà degli anni settanta, dopo la crisi petrolifera e la politica dei sacrifici, anche se trascorreranno altri anni prima di prendere atto di questa situazione. Il reddito condiziona le scelte di vita; le spese per l’istruzione sono state decisamente basse per molte fasce sociali, ma non per le élite, che hanno operato investimenti per consentire ai loro figli di acquisire competenze importanti e richieste dal mercato.

L’indebolimento della scuola pubblica ha giocato un ruolo determinante anche nella mancata mobilità sociale, eppure è stata proprio la cultura meritocratica ad illudere molti di poter accedere alla mobilità sociale. La cultura del merito è stata una formidabile arma ideologica utilizzata all’occorrenza anche per ridurre il potere di acquisto e di contrattazione nella pubblica amministrazione (la famigerata performance), ma anche uno strumento di controllo sociale per ridurre ai minimi termini la conflittualità. A tal riguardo, un ruolo determinante è stato giocato dalla involuzione concertativa dei sindacati.

In ogni caso, nelle famiglie con minor grado di istruzione, la condizione economica è decisamente peggiore e il collegamento tra bassa scolarizzazione e condizione di vita precaria resta valido, poiché titolo di studio e professione sono ancora strettamente connessi. Ma appartenere alla classe popolare significa ancora oggi accedere a scuole superiori di rango professionale, e i livelli di istruzione dipendono sempre più dai redditi familiari posseduti. Un discorso analogo possiamo fare per i non occupati: l’esercito industriale di riserva e gli esclusi dal mondo lavorativo sono per lo più senza istruzione o in possesso di titoli di studio bassi. Pensiamo alla svolta green dell’economia o all’avvento della digitalizzazione per capire che nei prossimi anni ci sarà un aumento dei disoccupati, soprattutto nelle fasce popolari della popolazione, anche in virtù del fallimento riscontrato dalle politiche attive del lavoro, di orientamento e formazione.

E per quanto le donne siano svantaggiate rispetto agli uomini nel mercato del lavoro (contratti part-time o precari, paghe inferiori), conta molto di più la classe rispetto al genere. Il divario di classe potrà essersi ridotto, ma rimane comunque elevato. Le statistiche ufficiali sulla disoccupazione non sono di aiuto se risultano occupati anche coloro che hanno lavorato pochissimi giorni nell’arco dell’anno. Fattostà che i dati Eurostat fotografano la fascia di età dai 25 ai 34 anni come quella caratterizzata dall’elevato numero di persone che non studiano e risultano disoccupate.

Un capitolo a parte meriterebbe il divario territoriale. Se ricondotta alle tre aree del paese (Nord, Centro, Sud e Isole), un’analisi di classe potrebbe assumere connotati diversi rispetto a una valutazione relativa all’intera nazione. Qui entrano anche in gioco i fenomeni migratori, che continuano ad essere molto presenti nelle aree meridionali. Fattostà che un eventuale ritorno al sistema delle gabbie salariali determinerebbe condizioni retributive e di vita ancor peggiori nelle aree meno industrializzate e povere del paese. Rispetto a 40 o 50 anni fa, nel Sud la presenza della piccola e media borghesia continua a essere inferiore rispetto ad altre aree geografiche.

Le classi sono da tempo scomparse nel discorso pubblico. Lo Stato leggero ha sacrificato le politiche attive del lavoro senza, peraltro, ampliare i confini del welfare adattandoli ai nuovi bisogni sociali. I rapporti di dominio, tuttavia, non sono mutati; è entrato invece in crisi il conflitto distributivo sul quale si erano soffermati in ambito politico e sindacale. Non è quindi la divisione in classi a essere scomparsa, ma devono invece essere aggiornate le interpretazioni delle classi stesse alla luce dei cambiamenti produttivi.

È invece entrata in crisi la rappresentanza politica e sindacale delle classi popolari in anni nei quali è stato demonizzato il conflitto sociale e quello tra capitale e lavoro, soffermandosi invece sulla crisi di identità con la feroce ristrutturazione dell’apparato produttivo, che ha visto spostare gli operai dalle fabbriche ai magazzini della logistica e del terziario. La malsana idea della società liquida è stata perdente; il fascino verso le classi medio-alte ha portato a intraprendere percorsi di riduzione del welfare e sistemi fiscali dominati dalla riduzione delle aliquote fiscali.

In sintesi, la classe operaia non è scomparsa; le classi medie sono senza dubbio cresciute, così come i divari sociali all’interno di alcuni processi di cambiamento, da interpretare non solo in chiave sociologica, ma per aggiornare invece la nostra analisi delle classi sociali, dalla quale urge ripartire.

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About Federico Giusti

Federico Giusti è delegato CUB nel settore pubblico, collabora coi periodici Cumpanis, La Città futura, Lotta Continua ed è attivo sui temi del diritto del lavoro, dell'anticapitalismo, dell'antimilitarismo.

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