
Nella giornata di ieri abbiamo riportato le parole del presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, che ha denunciato il giro di interessi che muove le strutture sanitarie private, minacciandole di esproprio nel caso in cui si rifiutassero di accogliere quei pazienti che il servizio pubblico non riesce a seguire visto che molte strutture sono del tutto piene. A questo punto ci sembra doveroso affrontare il tema con una visione più ampia, per capire quali sono i Paesi che investono maggiormente nel settore della sanità pubblica ed in che modo lo fanno. Per procedere, abbiamo considerato tre indici della Banca Mondiale, i cui ultimi dati sono aggiornati al 2012.
Innanzi tutto, vediamo quale percentuale del prodotto interno lordo (PIL) di ogni Paese è destinato al settore della sanità pubblica. Nelle prime posizioni troviamo i piccoli stati arcipelagici dell’Oceania, con Tuvalu che dedica il 15.4% del proprio PIL alla sanità, mentre in seconda e terza posizione troviamo le Isole Marshall (12.9%) e la Micronesia (11.5). Il Paese europeo con il dato migliore è l’Olanda, quarta a quota 9.9%, ma hanno un’ottima percentuale anche Danimarca (9.6%), Francia (9.0%), Austria (8.7%) e Germania (8.6%). Gli Stati Uniti sono in tredicesima posizione (8.3%), mentre l’Italia è ventiquattresima con un discreto 7.2%.
Proviamo a dare una prima interpretazione a questi dati: i piccoli Paesi dell’Oceania (oltre a quelli citati, vanno aggiunti Kiribati, Isole Salomone e Palau) sono fortemente dipendenti dalle economie straniere, e dunque possono dedicare una parte cospicua del loro piccolo PIL ad un settore fondamentale come quello sanitario. Marshall, Micronesia e Palau, inoltre, sono sottoposti ad un trattato internazionale denominato Compact of Free Association (COFA), che li lega a doppio filo con gli Stati Uniti, dai quali questi Paesi dipendono sia militarmente che economicamente. Un discorso simile può essere fatto per il miglior stato africano, il Lesotho (9.1%), la cui economia dipende in gran parte da quella del Sudafrica, del quale rappresenta una enclave. Oltre ai Paesi dell’Europa occidentale ed agli Stati Uniti, si riscontrano dati superiori all’8% per Nuova Zelanda, Giappone e Cuba. Guardando la classifica al contrario, invece, troviamo quei Paesi dove le spesa in sanità pubblica fa fatica a raggiungere l’1%: Myanmar (ex Birmania), Ciad, Pakistan ed il Sudan del Sud, lo stato più giovane (e povero) di tutti, essendo nato nel 2011.
In secondo luogo, vediamo quale percentuale occupa la sanità pubblica sul totale complessivo delle spese di ogni Paese in questo settore: lo Stato ricopre un ruolo importante in diversi Paesi, a cominciare ancora da Tuvalu (99.9%), dove il settore privato è praticamente inesistente, proseguendo con le Isole Salomone (96.2%), Cuba (94.2%), Seychelles (93.3%), Brunei (91.8%) e Micronesia(90.3%). Tra i Paesi europei, escludendo Monaco e San Marino, quelli dove il settore pubblico ricopre un ruolo più importante sono Danimarca (85.5%), Norvegia (85.1%), e Repubblica Ceca (84.8%). L’Italia si trova in 34° posizione con una percentuale del 78.2%, mentre negli Stati Uniti la quota del privato supera quella del pubblico (46.4%).
Anche in questo caso è importante dare una lettura dei dati: i piccoli stati che occupano le prime posizioni sono poco popolati e dunque poco appetibili per le imprese della sanità privata, che non vedono un mercato interessante e grandi prospettive di profitto in questi Paesi. Tra questi fa eccezione Cuba, dove le politiche del governo socialista continuano a dare una grande importanza agli investimenti nel settore sanitario pubblico, con solamente piccole concessioni per gli operatori privati. In Europa, le socialdemocrazie del nord conservano una forte predominanza del pubblico, mentre la Repubblica Ceca è premiata rispetto agli altri Paesi dell’ex blocco orientale per aver adoperato politiche di transizione verso l’economia di mercato molto più graduali, con lo stato che ha continuato a giocare un ruolo importante. Da notare l’eccezione del Regno Unito che, pur essendo una delle patrie del neoliberismo, conserva un sistema sanitario prevalentemente in mano al pubblico (82.5%).
Da sottolineare anche i nomi dei Paesi dove il settore privato resta oramai quasi l’unico esistente: Sierra Leone (16.6% di percentuale per il pubblico), Georgia (18.0%), Afghanistan (20.8%), Guinea-Bissau(22.7%), Azerbaijan (22.8%), Haiti (22.8%): tutti Paesi dove ha attecchito il liberismo più sfrenato, con i governi spinti verso questa strada dalle grandi organizzazioni internazionali e dagli Stati Uniti, che non a caso hanno stretti legami con tutti questi Paesi. L’unica eccezione sta forse nell’Afghanistan, dove l’assenza dello stato è in parte colmata dalle numerose ONG che vi operano, mentre in Paesi poverissimi come Haiti la liberalizzazione ha oramai reso quasi impossibile l’accesso alle cure mediche per la maggioranza della popolazione. Georgia ed Azerbaijan, inoltre, sono i due Paesi che più di tutti hanno optato per una violenta transizione dall’economia pianificata a quella di mercato, ed il settore della sanità è stato tra i primi a pagarne le spese venendo privatizzato quasi totalmente.
Infine, il terzo indice che prendiamo in considerazione è quello delle spese sanitarie per abitante, ovvero quanti dollari uno stato spende in media per l’assistenza medica a ciascono dei suoi cittadini. Al comando troviamo tutti i Paesi a reddito alto, a partire dalla Norvegia (9.055 $), proseguendo con Svizzera (8.950 $), Stati Uniti (8.895 $), Lussemburgo (7.452 $) e Principato di Monaco (6.708 $). L’Italiasi trova in ventitreesima posizione con 3.032 $ spesi per abitante. Va detto comunque che questa statistica, più delle altre, andrebbe presa con le pinze perché non tiene in considerazione la parità di potere d’acquisto, ponendo dunque nelle prime posizioni i Paesi dove c’è una maggiore disponibilità di danaro ma anche un costo della vita più elevato, e non differenzia il settore pubblico da quello privato (ad esempio, come abbiamo visto, le spese degli Stati Uniti sono in gran parte coperte dal privato).
In conclusione, facciamo alcune considerazioni. Innanzi tutto, i dati che abbiamo snocciolato sono sì importanti, ma restano dei dati quantitativi e non qualitativi: per intenderci, un Paese che investe molto nel settore sanitario non è detto che lo faccia bene ed in modo efficace. L’Italia, ad esempio, investe una percentuale maggiore del proprio PIL nella sanità pubblica rispetto a Finlandia, Svizzera o Australia, ma è molto difficile affermare che la sanità pubblica italiana funzioni meglio di quella di questi tre Paesi. In secondo luogo, l’assistenza sanitaria funziona meglio nei Paesi che mantengono un ruolo prevalente del pubblico, soprattutto se si considera la zona geografica di appartenenza: il Canada mantiene standard migliori degli Stati Uniti, Cuba ha il miglior sistema sanitario dell’America Latina, i Paesi scandinavi sono leader in Europa occidentale, così come la Repubblica Ceca nell’Europa orientale, l’Armenia nel Caucaso o l’Algeria in Africa. Invece, una forte presenza del settore privato crea disparità e difficoltà di accesso alle cure per la maggioranza della popolazione non solamente nei Paesi poveri dell’Africa e dei Caraibi, ma anche in quelli a reddito medio dell’America Meridionale e persino negli Stati Uniti, dove la riforma voluta da Obama ha provato a mettere una pezza in un sistema che, per un Paese che si vanta di essere la prima potenza economica del mondo, resta alquanto inefficiente.
I dati ci lasciano dunque pensare che i governi dovrebbero investire maggiormente nella sanità pubblica e dettare condizioni più strette agli investitori privati, ma questo per molti Paesi poveri resta difficile, e sarà impossibile fino a quando le organizzazioni internazionali, a partire dalla stessa Banca Mondiale che fornisce i dati statistici, continueranno a proporre modelli di liberalizzazione e privatizzazione accelerate a discapito delle popolazioni che si vedono negare l’accesso anche ad un’assistenza sanitaria di base. L’impresa resta ardua, ma più accessibile, per i Paesi a reddito medio, con politiche mirate proprio come sta provando a fare Rafael Correa in Ecuador, dove il ruolo dello stato nel settore della sanità ha registrato un impegno economico sempre crescente sin dal suo primo mandato presidenziale.
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