
Era il 7 ottobre 2001, oltre 11 anni fa, quando gli statunitensi iniziarono le operazioni militari in Afghanistan, coadiuvati, come sappiamo, innanzi tutto da Gran Bretagna, Canada e Australia, e successivamente da numerosi altri stati (non solo occidentali), tra cui l’Italia. Da allora, al di là, di ogni considerazione sul susseguirsi degli eventi bellici in sé, riceviamo quasi ogni giorno notizie di morti in territorio afghano, indipendentemente dalla loro nazionalità. Da quando è iniziata la guerra d’Afghanistan (non la si potrebbe chiamare altrimenti), lo stato dell’Asia centrale è divenuto il luogo più pericoloso al mondo.
L’Afghanistan è uno stato senza sbocco al mare, apparentemente insignificante, in quanto si tratta di un territorio prevalentemente montagnoso, in gran parte arido ed impervio. In realtà, l’area geografica in cui si trova è da tempo al centro dell’interesse geopolitico, come dimostrano le azioni militari svolte nel tempo prima dall’Unione Sovietica e poi dagli Stati Uniti. In effetti, l’Afghanistan può essere identificato come facente parte di quella regione del mondo, a metà tra l’Europa e l’Asia, che il geografo inglese Halford MacKinder denominò “Heartland”, ovvero “cuore del mondo”. In realtà MacKinder si riferiva prevalentemente alla Russia, come denota la sua celebre frase : “Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland: chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo”.
La teoria di MacKinder risale però al 1904, epoca nella quale si aveva l’impressione che le vicende del mondo si giocassero perlopiù in Europa. Ecco perché l’Heartland teorizzato da MacKinder si trovava sì tra l’Europa e l’Asia, ma prevalentemente sbilanciato verso l’Europa.
Successivamente, con l’emergere dell’Unione Sovietica e con il clima di tensione imposto dalla guerra fredda, l’interesse geopolitico si spostò verso l’area dell’Asia centrale: gli Stati Uniti vi erano interessati per poter accerchiare l’Unione Sovietica, mentre l’URSS aveva l’interesse a creare un cuscinetto di protezione delle proprie frontiere. In questo modo si possono spiegare l’invasione sovietica dell’Afghanistan, ma anche le tensioni che vi furono in quegli anni riguardo la Persia, poi Iran in seguito alla rivoluzione degli ayatollah.
Con la caduta dell’Unione Sovietica, si ebbe l’impressione, per circa un decennio, che il mondo fosse divenuto unipolare, e che gli Stati Uniti avessero conquistato una posizione egemonica a livello mondiale in maniera definitiva. In questo decennio si pensò che il centro del mondo fosse l’Atlantico, l’oceano che separa gli USA dall’Europa, suo principale alleato e partner commerciale.
Le cose, però, sono rapidamente mutate negli ultimi anni, con l’emergere di nuove potenze regionali e mondiali. Oramai ci troviamo in un mondo multipolare, in cui l’egemonia statunitense è costantemente rimessa in discussione dalle potenze emergenti. Una particolare congiuntura ha voluto che diversi centri di interesse geopolitico si posizionassero ai confini dell’Afghanistan: due delle principali potenze emergenti, se non le prime due in assoluto, la Cina e l’India, si trovano ad est dell’Afghanistan e del Pakistan, altro Paese di interesse geostrategico molto importante; un altro Paese che attira l’attenzione di tutto il mondo, l’Iran, si trova invece al confine occidentale dell’Afghanistan. Ecco che quindi l’Afghanistan rappresenta in tutto e per tutto l’Heartland del nostro tempo.
In pratica, attraverso la guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti si sono garantiti numerose certezze in un’area geografica fondamentale:
- l’imposizione (de facto) di un governo, teoricamente di transizione, ma di fatto stabile, guidato da Hamid Karzai, che fino ad ora si è dimostrato fedele agli statunitensi;
- l’amicizia, giustificata dal fine della lotta al terrorismo e ai Talebani, di Pervez Musharraf, ex presidente del Pakistan, precedentemente legato alla Cina, e successivamente dell’attuale presidente pakistano, Muhammad Mian Soomro, già dipendente della Bank of America;
- l’accesso diretto, attraverso l’Afghanistan e il Pakistan, alle frontiere di due grandi Paesi emergenti, la Cina (sopratutto) e l’India;
- il completamento dell’accerchiamento di uno “stato canaglia”, l’Iran di Ahmadinejad, già iniziato con l’invasione dell’Iraq.
La strategia geopolitica adottata dagli Stati Uniti è senza dubbio di grande portata, ma il prezzo è ancora più alto: sono vite umane, siano esse italiane, statunitensi, afghane o di qualsiasi altra nazionalità. Fino ad ora si possono contare 2.050 morti tra i soldati statunitensi, 1.062 morti tra gli eserciti stranieri schierati al fianco degli USA (soprattutto Gran Bretagna, Francia, Canada, Germania e Italia), 1.143 morti tra i civili stranieri impegnati in azioni di vario tipo, oltre 10.000 morti tra le forze armate afghane, un bilancio non stimabile di morti tra le forze talebane e, soprattutto, circa 15.000 morti tra i civili afghani (le vere vittime di questo conflitto) dal 2001 ad oggi.
Il desiderio egemonico degli Stati Uniti può valere tutto ciò?
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