
In seguito al mio articolo sul referendum costituzionale in Islanda, ho letto diversi commenti che affermavano la non veridicità della prima parte dell’articolo, riguardante il debito islandese. Ho deciso quindi di trattare la questione più nello specifico, sperando di risultare più chiaro.
Come torno a ripetere, uno degli eventi che ha caratterizzato la crisi islandese tra il 2008-2010 è stato il fallimento della banca Icesave. Icesave non era altro che il nome con il quale si presentava la Landsbanki al pubblico estero, in particolare in Gran Bretagna ed Olanda.
In seguito al collasso della banca, il parlamento islandese (Althing) ha approvato una legge, nota come “Icesave bill”, in cui programmava la restituzione del debito ad Olanda e Gran Bretagna secondo determinate modalità. Infatti, un accordo precedente, metteva il governo islandese in posizione di garante per la Icesave in Olanda e Gran Bretagna. Il debito da pagare immediatamente ammontava a circa 5,5 miliardi di dollari. Il Presidente della Repubblica, Ólafur Ragnar Grímsson, si rifiutò, però, di firmare la legge, chiedendo il parere dei cittadini attraverso un referendum: il 6 marzo 2010, il 93% dei votanti si espresse contro la restituzione del debito della Icesave ad Olanda e Gran Bretagna.
Un anno dopo, il 16 febbraio 2011, il parlamento islandese formulò una nuova “Icesave bill”, che prevedeva una restituzione del debito più dilazionata nel tempo (fino al 2046) e con un tasso di interesse del 3%. Ancora una volta, il Presidente Grimsson si è rifiutato di firmare, chiamando i cittadini alle urne. Il 9 aprile 2011, circa il 60% dei votanti si espresse contro la legge, confermando l’esito del referendum dell’anno prima.
In seguito a questo secondo referendum, i governi dei Paesi Bassi e del Regno Unito hanno annunciato di voler portare il caso davanti alla Corte di Giustizia dell’EFTA (European Free Trade Association), l’organizzazione economica che riunisce Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein. Il ministro delle finanze olandese, Wouter Bos, si è opposto a qualsiasi prestito all’Islanda, fino a quando non si sarebbe impegnata a restituire il debito contratto attraverso l’Icesave. Lo stesso ministro islandese delle finanze, Steingrímur J. Sigfússon, dichiarò di non condividere la scelta popolare.
Le proteste dei Paesi Bassi e del Regno Unito non hanno portato a nulla, mentre il governo islandese, sebbene contrario alla decisione popolare, l’ha pienamente rispettata, come dovrebbe avvenire in tutte le democrazie. L’Islanda in questo modo ha deciso di non pagare circa 5,5 miliardi di dollari (considerando solo i debiti a breve termine) del proprio debito, pari all’8,4% del proprio debito estero totale al 2008 (inizio della crisi).
Per uscire dalla crisi, l’Islanda ha parzialmente nazionalizzato (circa il 33%) le tre principali banche, ottenendo un netto miglioramento della situazione economica già dal 2011 (+2,6%), al contrario di molti altri Paesi entrati in crisi dal 2008. Un risultato notevole, se si calcola che la crisi islandese può essere considerata la più grande della storia, in rapporto alla grandezza dell’economia del Paese. Oltre 200 persone, tra i quali gli ex dirigenti delle banche islandesi, saranno chiamate a processo per rispondere ad accuse di diversi crimini. L’Islanda è rimasta, dopo la crisi, ai vertici delle classifiche mondiali riguardanti sanità, istruzione, servizi sociali, qualità della vita, ed ha anche iniziato i procedimenti per l’adesione all’Unione Europea.
Nell’ottobre 2011, la Corte Suprema islandese ha dichiarato la Landsbanki responsabile del risarcimento dei creditori, ovvero che deve essere la banca a restituire i soldi, e non il governo del Paese. Questo mentre quasi tutti i governi del mondo si affrettavano nel mettere in pratica operazioni di salvataggio delle banche, a danno dei cittadini. La Landsbanki ha così iniziato i pagamenti: al giugno 2012 aveva restituito 432 miliardi di corone islandesi (3,5 miliardi di dollari) e si è impegnata a pagare un totale 1.332 miliardi di corone islandesi (10,7 miliardi di dollari, pari al 16% del debito totale al 2008), che includono non solo i debiti a breve termine, ma anche gli interessi e i debiti non imminenti, entro il 2018.
La crisi e le relative proteste sono servite da spunto per l’inizio di un processo il cui obiettivo è la democrazia diretta e la riforma costituzionale, come dimostrato dai referenda della scorsa settimana, di cui ho trattato nell’articolo di cui sopra.
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