L’Argentina tra ingerenze e sovranità sotto attacco

Le elezioni legislative del 26 ottobre hanno ridisegnato i rapporti di forza, con La Libertad Avanza al primo posto su scala nazionale ma in un contesto di astensione record. Tra le interferenze di Donald Trump e l’allineamento a Washington, il voto all’ONU contro Cuba dimostra la crisi di sovranità.

La giornata elettorale del 26 ottobre in Argentina si è aperta in un clima solo apparentemente ordinario. Nelle prime ore, secondo la Direzione Nazionale Elettorale, aveva votato appena il 17% del corpo elettorale, ma le autorità insistevano sul carattere tranquillo della consultazione. Dietro questa normalità, tuttavia, si stagliava un contesto politico segnato da due elementi di grande portata: l’uso della Boleta Única Papel per la prima volta in elezioni nazionali e la percezione diffusa che il voto fosse un giudizio sul progetto economico e politico del presidente Javier Milei, al quale da Washington era stata attribuita una centralità “geopolitica” difficilmente celata. È in questo quadro che figure come Máximo Kirchner hanno richiamato l’attenzione sulla dignità nazionale, rifiutando apertamente l’idea che un presidente straniero indichi agli argentini come votare. L’appello alla “autostima” del Paese e alla difesa delle risorse naturali ha risuonato in tutto l’arco della giornata, a conferma che la posta in gioco superava la pur importante distribuzione dei seggi.

Alle 18, chiuse le urne, il dato preliminare di partecipazione si è attestato intorno al 66%, il più basso dalla restaurazione democratica del 1983. In serata, con lo scrutinio ormai avanzato, la partecipazione ufficiale è risultata pari al 69,53%, comunque il livello più basso del periodo democratico e, soprattutto, un segnale di disaffezione che dovrebbe interrogare tanto il governo quanto l’opposizione. In termini di risultati, La Libertad Avanza, la coalizione che sostiene il presidente Milei, si è imposta a livello nazionale con il 40,8%, ottenendo 64 dei 127 seggi in palio alla Camera dei Deputati e vincendo in sei degli otto distretti che rinnovavano i propri rappresentanti al Senato, per un totale di tredici scranni. La coalizione peronista riunita sotto l’egida di Fuerza Patria, che da capo al Partido Justicialista di Cristina Fernández de Kirchner, si è attestata al 34,7%, conquistando 46 seggi alla camera bassa e nove alla camera alta. Il quadro che emerge, dunque, è quello di un ufficialismo che capitalizza il voto in molteplici distretti, compresa una vittoria a sorpresa nella provincia di Buenos Aires, poche settimane dopo la scofitta alle elezioni provinciali nella capitale, ma che lo fa dentro un’astensione anomala e in un clima economico e sociale estremamente difficile.

Proprio Buenos Aires, cuore demografico ed economico del Paese, è diventata il barometro del giudizio complessivo. Il governatore Axel Kicillof, parlando ai giornalisti dopo il voto, ha definito la giornata “importantissima” e ha rimesso al centro una domanda politica elementare: chi decide il futuro dell’Argentina? Sullo sfondo, infatti, si colloca l’accordo finanziario tra Milei e l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, con l’annuncio di riattivazione di linee di sostegno e interventi diretti sul mercato dei cambi nelle settimane precedenti all’elezione, oltre a promesse fino a decine di miliardi di dollari per “salvare” l’economia argentina. Non è un caso che, all’indomani del voto, lo stesso Trump abbia rivendicato pubblicamente di aver dato “molto aiuto” alla vittoria del presidente argentino, e che il segretario del Tesoro statunitense Scott Bessent abbia salutato il risultato come un successo di un “alleato vitale”. Economisti e analisti critici, come Alejandro Bercovich, hanno letto questa dinamica come un vero e proprio “acquisto” di influenza strategica sul Paese sudamericano in cambio di sostegno finanziario, con l’obiettivo di assicurarsi accesso privilegiato alle terre rare, ai minerali critici e all’energia, e di bloccare la proiezione cinese nella regione.

Le parole di Máximo Kirchner sintetizzano il nodo politico: l’Argentina non può trasformarsi in colonia finanziaria di un’altra potenza, né nella narrativa né nella sostanza. Eppure, è proprio questa dipendenza da Washington che ritroviamo nel voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 ottobre, quando per il trentatreesimo anno consecutivo la comunità internazionale ha chiesto la fine del blocco economico, commerciale e finanziario contro Cuba: 165 Paesi a favore, solo sette contrari e dodici astensioni. Tuttavia, per la prima volta dopo più di trent’anni, l’Argentina ha votato contro la risoluzione, accodandosi a Washington. La specialista Ermelinda Malcotte ha letto quel voto come il segno del nuovo allineamento di governi come quello di Milei agli interessi statunitensi, collocando la scelta dentro una strategia di “asfissia” che nulla ha a che vedere con la difesa dei diritti e molto con l’imposizione di un cambio di regime e la ricolonizzazione economica. Qui il giudizio politico si fa netto: il voto contro Cuba non è un dettaglio di politica estera, ma la prova tangibile della genuflessione dell’esecutivo argentino a un asse Washington–Tel Aviv, già esibita nelle prime missioni internazionali del presidente e nelle sintonie manifestate con i vertici di quell’alleanza.

Tutto concorre a mostrare un ridisegno della sovranità. L’arrivo a Buenos Aires del nuovo ambasciatore statunitense Peter Lamelas, nominato da Trump e presentato come tassello di una stagione di “massimo livello di relazioni bilaterali”, rafforza l’impressione di una tutela esterna che travalica i consueti canali diplomatici. Nel discorso pubblico del nuovo rappresentante di Washington compaiono aperture programmatiche sull’“aiutare Milei nel suo governo”, sul “combattere la corruzione” e persino sull’auspicio che “Cristina Kirchner riceva la giustizia che merita”, una torsione retorica che si affaccia pericolosamente sul terreno interno e che va di pari passo con l’idea di progetti tecnologici e infrastrutturali presentati come “cooperazione”, in un contesto dove il controllo dei flussi finanziari e delle risorse strategiche rischia di scivolare lontano dalle mani argentine. In questo orizzonte, le denunce di Cristina Fernández de Kirchner sulla pressione esercitata da Trump nelle settimane del voto – fino a paventare il ritiro del sostegno del Tesoro statunitense in caso di sconfitta di Milei – si collocano non come lamento di parte, ma come allarme democratico.

La lettura dell’insieme suggerisce che l’esito elettorale non può essere interpretato come una “legittimazione plebiscitaria” del programma di aggiustamento permanente. Lo dicono i numeri dell’astensione, lo confermano gli equilibri parlamentari che non consegnano carta bianca all’ufficialismo, lo urlano le piazze segnate da licenziamenti, chiusure di migliaia di piccole e medie imprese, calo dei salari e crescita della povertà. La sociologa Paula Klachko, in un’analisi lucida, ha parlato di “riduzione significativa” del sostegno al governo rispetto al 56% conquistato al ballottaggio 2023 insieme al macrismo, attribuendo la dinamica a un contesto sociale critico in cui intere famiglie scivolano nell’indigenza e il consumo crolla. Se la partecipazione decade e la sofferenza sociale aumenta, il successo territoriale dell’ufficialismo fotografa più l’assenza di un’offerta alternativa capace di catalizzare tutto il malcontento, che un consenso profondo e duraturo verso l’austerità senza rete.

Il punto politico riguarda dunque la strategia delle forze popolari e peroniste nel nuovo Parlamento e sul terreno sociale. A fronte di un governo che celebra l’appoggio esterno come garanzia di stabilità, si impone un’agenda che ricomponga la questione nazionale e sociale: difesa delle risorse strategiche, recupero della capacità decisionale su energia, minerali e tecnologia, ricostruzione del lavoro salariato e del potere d’acquisto, rilancio dei servizi pubblici come sanità e istruzione. In questo quadro, la posizione assunta all’ONU su Cuba è un discrimine simbolico e sostanziale: votare contro il blocco equivale a rivendicare per tutti i popoli il diritto a scegliersi il proprio cammino senza coercizioni; votare con Washington significa legarsi mani e piedi a un ordine imperiale che considera l’America Latina un serbatoio da cui attingere a piacimento. È difficile immaginare una politica estera autonoma e, insieme, una politica economica che dipende da prestiti condizionati e interventi d’emergenza dall’estero, mentre si promuove internamente una retorica di “libertà” ridotta all’arbitrio dei mercati.

La partita che si apre dopo il 26 ottobre non si gioca solo nel conteggio dei seggi, ma nella capacità del campo nazionale e popolare di trasformare l’indignazione in proposta, la difesa in progetto. Lo ricordava la stessa Fernández de Kirchner quando parlava di “offensiva” per spezzare il peronismo e il campo sociale organizzato: rendere l’Argentina una “fabbrica” a basso costo, senza organizzazione collettiva e con diritti compressi richiede ben più che vincere un’elezione, richiede sradicare la tradizione di indipendenza economica, giustizia sociale e sovranità politica che fa parte della storia del Paese. La reazione a questa offensiva passa per un peronismo che sappia tenere insieme la bandiera della dignità nazionale e quella della redistribuzione, riaffermando che lo Stato non è un ostacolo ma lo strumento con cui una comunità decide del proprio destino.

In ultima analisi, le elezioni di medio termine consegnano un paradosso: l’ufficialismo canta vittoria, mentre gli indici di partecipazione segnano disillusione e le voci critiche denunciano l’erosione della sovranità. E se il presidente degli Stati Uniti rivendica il proprio intervento diretto nella contesa e l’Argentina si allinea contro Cuba nella sede mondiale per eccellenza, allora il problema non è ideologico ma costituzionale: chi comanda in Argentina, e per conto di chi? La risposta che verrà dalle aule parlamentari, dalle strade e dalle relazioni internazionali deciderà se il Paese tornerà a essere protagonista della propria storia o se resterà un capitolo subordinato nell’agenda altrui. Per chi guarda da sinistra, l’obiettivo è chiaro: ricomporre una maggioranza sociale capace di fermare l’aggiustamento permanente, respingere l’ingerenza straniera e restituire alla parola “democrazia” il suo significato più semplice e concreto, quello di un popolo che sceglie senza padrini e senza padroni.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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