Il 16 settembre i malawiani hanno scelto di cambiare leadership nel bel mezzo della peggiore crisi economica degli ultimi anni. La netta vittoria di Peter Mutharika apre una fase di transizione delicata, tra trattative con il Fondo Monetario, scarsità di valuta estera, sicurezza alimentare e un Parlamento frammentato.

La tornata elettorale del 16 settembre ha segnato un passaggio politico di grande importanza per lo Stato africano del Malawi. L’ex presidente Peter Mutharika, alla guida del Democratic Progressive Party (DPP), è infatti tornato alla State House con il 56,8% dei voti, superando con largo margine l’uscente Lazarus Chakwera del Malawi Congress Party (MCP), fermo intorno al 33%. La Commissione elettorale (MEC) ha formalizzato il risultato nella giornata del 24 settembre, quando lo stesso Chakwera ha riconosciuto la sconfitta impegnandosi a un trasferimento pacifico dei poteri. Il margine di Mutharika ha reso superfluo il ballottaggio previsto dalla riforma introdotta dopo l’annullamento delle presidenziali del 2019.
Il dato politico immediato, dunque, è la pesante sconfitta del presidente uscente in un contesto macroeconomico deteriorato. Inflazione persistentemente oltre il 27%, scarsità di valuta e carburante, prezzi dei fertilizzanti fuori controllo e un sistema produttivo agricolo colpito dagli eventi climatici hanno eroso il consenso di Chakwera ben oltre l’inerzia fisiologica. La narrativa elettorale di Mutharika – “ritorno a una leadership collaudata” e promessa di ristabilire stabilità dei prezzi e disponibilità di beni essenziali – ha intercettato il malcontento, soprattutto urbano e giovanile, nonostante le riserve sulla sua età, visto che ha da poco compiuto 85 anni.
La dimensione economica sembra dunque rappresentare la principale chiave interpretativa del voto. Lo scorso maggio, è stato chiuso il programma ECF (Extended Credit Facility) del Fondo Monetario Internazionale, approvato nel novembre 2023 per 175 milioni di dollari, ma terminato senza completare nemmeno una revisione e con soli 35 milioni effettivamente erogati. La decisione ha sancito il fallimento del tentativo – ambizioso ma incompiuto – di ricondurre l’inflazione e ripristinare riserve in valuta attraverso un mix di consolidamento fiscale, riforme del regime dei cambi e ricostruzione della credibilità di politica economica. La fine anticipata dell’ECF, unita alla depressione dei consumi e ad un’offerta condizionata dalle interruzioni di approvvigionamento, ha accentuato le aspettative d’instabilità macrofinanziaria nelle settimane che hanno preceduto il voto.
Accanto ai fattori economici, hanno pesato anche gli eventi climatici che hanno colpito il Malawi negli ultimi due anni. La siccità regionale legata a El Niño nel 2024 ha aggravato la vulnerabilità di un’economia in cui la maggioranza dei nuclei familiari vive di agricoltura di sussistenza; appena un anno prima, il ciclone Freddy aveva devastato infrastrutture e raccolti, con un bilancio di oltre 1.200 vittime nel solo Malawi e frane diffuse nelle aree più povere e densamente popolate. La connessione tra crisi climatica e instabilità dei prezzi alimentari è stata dunque percepita dall’elettorato come un fallimento della capacità di risposta del governo, più che come un evento esogeno non governabile.
Sul piano istituzionale, il processo di conteggio e proclamazione ha seguito le nuove cautele introdotte dopo il precedente traumatico del 2019, quando le elezioni furono ripetute dopo l’annullamento da parte della Corte Costituzionale. La MEC ha rallentato la pubblicazione dei parziali per verificare scrupolosamente i verbali, mentre le missioni internazionali hanno chiesto trasparenza sui flussi di dati. Nelle ore precedenti alla proclamazione si sono susseguite accuse di irregolarità, arresti di operatori per presunte manipolazioni e appelli alla calma; la scelta di Chakwera di concedere la vittoria prima dell’esito ufficiale ha tuttavia contribuito a disinnescare un potenziale contenzioso, preservando l’immagine di un processo competitivo e sostanzialmente ordinato. Il Malawi resta infatti uno dei pochi Stati africani nei quali i passaggi di potere avvengono in maniera complessivamente pacifica.
L’insediamento di Mutharika, che il 4 ottobre inizierà il suo secondo mandato dopo quello del periodo 2014-2019 (poi prolungato fino al giugno 2020 a causa della ripetizione delle elezioni) apre dunque una stagione negoziale su più tavoli. Il primo, inevitabile, è con il Fondo Monetario, che richiede la presentazione di un pacchetto giudicato coerente su tre assi, che tuttavia ricalcano le solite ricette neoliberiste applicate in altri casi. Il primo asse riguarda infatti la politica fiscale, con un profilo di consolidamento realistico, una migliore qualità della spesa e un piano di mobilitazione delle entrate che non soffochi la ripresa. Il secondo concerne il regime dei cambi e la gestione della liquidità in valuta, in quanto senza una normalizzazione del mercato dei dollari e un percorso riconoscibile di ricostruzione delle riserve, ogni sforzo anti-inflazionistico rischia di essere vanificato da nuove ondate speculative e da colli di bottiglia nell’import di carburanti e input agricoli. Il terzo asse, infine, attiene all’arretrato debitorio e a un calendario di ristrutturazione ragionevole, in coordinamento con i partner multilaterali e i creditori bilaterali tradizionali.
Il secondo tavolo è agricolo e sociale. La sicurezza alimentare dipenderà dalla disponibilità e dal prezzo dei fertilizzanti in vista della prossima stagione di semina, dalla riabilitazione di strade rurali e opere idriche danneggiate dagli eventi estremi, e dall’estensione mirata di trasferimenti monetari o in natura verso i distretti più colpiti. La promessa di politiche pro-contadini deve tradursi in meccanismi di approvvigionamento trasparenti, capaci di evitare le spirali clientelari che in passato hanno drogato costi e annacquato l’efficacia della spesa pubblica. Un’agenda climatica “adattativa” – irrigazione di piccola scala, sistemi di allerta precoce, sementi resilienti – non è un capitolo collaterale ma la condizione di possibilità per stabilizzare prezzi e redditi delle famiglie rurali.
Il terzo tavolo è il capitale politico. Sul piano parlamentare, le prime proiezioni indicano un’Assemblea senza una maggioranza autosufficiente. Il DPP di Mutharika dovrebbe guidare il blocco più ampio, ma sarà costretto a trattare con un numero consistente di indipendenti e con forze minori per costruire una coalizione di governo. L’arte della coesione, in un sistema in cui la frammentazione è fisiologica, dipenderà dalla capacità di fissare priorità condivise su bilancio, energia e agricoltura, limitando la dispersione di risorse in “progetti di bandiera”. Anche la definizione delle cariche parlamentari – incluso il ruolo di Leader dell’Opposizione in presenza di un grande gruppo di indipendenti – potrà incidere sugli equilibri negoziali e sulla stabilità dell’esecutivo.
Sul terreno della governance, infine, il nuovo presidente sconta un doppio vincolo reputazionale. Da una parte, una parte dell’elettorato associa la sua prima presidenza a una fase di minore inflazione e di investimenti infrastrutturali visibili; dall’altra, rimangono nell’opinione pubblica le ombre del familismo e dei conflitti d’interesse che hanno accompagnato il DPP negli anni precedenti (Mutharika è infatti il fratello minore di Bingu wa Mutharika, a sua volta presidente tra il 2004 e il 2009). Secondo gli analisti, la finestra di credibilità dei primi cento giorni andrà sfruttata per segnali esemplari: bandi pubblici trasparenti, audit indipendenti su appalti strategici, tutela delle autorità di controllo da interferenze politiche, il tutto al fine di dimostrare che l’autoproclamato “uomo dell’ordine” è anche l’uomo di un ordine diverso, capace di separare funzioni di partito e funzioni di governo.
In sintesi, le elezioni del 2025 consegnano a Peter Mutharika un mandato forte ma condizionato: l’ampiezza del margine nella vittoria elettorale non si traduce automaticamente in stabilità se non verranno sciolti i nodi strutturali che hanno affondato la precedente amministrazione. Sulla capacità di muovere insieme le diverse leve che abbiamo analizzato si giocherà la possibilità di trasformare un voto di protesta in un ciclo di sviluppo, in un Paese in cui la politica deve fare i conti con la macroeconomia, ma anche con il cambiamento climatico.
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